la Repubblica, 25 novembre 2015
Fittipaldi racconta la sua giornata alla sbarra nel tribunale vaticano
«Dottor Fittipaldi, se vuole ora può fare la sua dichiarazione». La voce del presidente del tribunale è cortese. Con la mano mi indica di accomodarmi sulla sedia di cuoio, posizionata di sbieco davanti al collegio che mi sta giudicando per reati «contro la Patria», ossia lo Stato della Città del Vaticano.
Fino a quel momento ero rimasto fermo. Inchiodato a una panca di legno simile a quelle delle chiese, un piccolo scranno dove i cancellieri avevano accompagnato me e gli altri quattro imputati a inizio udienza. Tutti in fila, uno a fianco all’altro. Io finisco in mezzo tra Gianluigi Nuzzi e Francesca Chaouqui.
Davanti a noi il promotore di giustizia muove diligentemente i fogli sul suo banco, dall’alto papa Francesco in foto controlla che tutto proceda con ordine, mentre a sinistra una dozzina di giornalisti di mezzo mondo (quelli che sono riusciti ad ottenere un accredito a rotazione) annota spasmodicamente sui blocchetti ogni movimento, ogni impressione, ogni sussurro.
Mentre mi alzo avviandomi verso il centro dell’aula noto per la prima volta che la stanza è completamente diversa da come l’immaginavo. A parte qualche stucco novecentesco che decora il soffitto e l’effige di Pio XI che troneggia sul fondo della sala, l’ambiente è spoglio, quasi monacale. «Che si aspettava, Michelangelo e Raffaello?» mi dirà alla fine uno degli uomini della polizia giudiziaria che ha condotto le indagini che hanno portato alla mia incriminazione. «Questo è il Palazzo del Tribunale, mica è bello come Palazzo San Carlo qui accanto, quello dove abita il cardinale Bertone. Pensi che buffo se dopo quello che ha scritto sulla sua casa lo incrociava oggi venendo qui...».
Era tutta la mattina che mi ripetevo in silenzio quello che dovevo dire ai giudici prima di iniziare il processo. Ne avevo parlato con il mio avvocato Giandomenico Caiazza fino alle due di notte, quando insieme a Lucia Musso, il legale rotale, abbiamo finito di scartabellare le carte dell’accusa, faldoni con centinaia di pagine che il Vaticano ci ha consegnato solo qualche ora prima l’inizio del dibattimento. Le parole me le sono ripetute mentre mi mettevo la cravatta a casa, mentre entravo nello Stato Pontificio oltrepassando decine di colleghi che seguono il primo processo a due giornalisti nella storia della Santa Sede, mentre un addetto alla sicurezza mi ammoniva a non entrare in aula con il cellulare. «Non lo può portare dentro. Deve riporlo in questa cassetta, qui è vietato fare registrazioni e fotografie». Le immagini del processo, infatti, sono monopolio del Vaticano.
Ho ripetuto la frase mentre mi sedevo davanti al collegio, ma alla fine l’emozione mi ha tradito, e ho deciso di leggere il biglietto che mi ero portato in caso di emergenza. «Ho deciso di comparire in questo processo per doveroso rispetto nei confronti di questo Tribunale che ha ritenuto di dovermi citare. Ma ritengo di dover esprimere la mia incredulità nel trovarmi ad essere imputato di fronte a giudici diversi da quelli del mio paese. In Italia la condotta che qui mi addebitate non sarebbe penalmente perseguibile. Perché voi non mi contestate di aver di aver pubblicato notizie false o diffamatorie, ma semplicemente di aver pubblicato notizie: un diritto garantito dalla Costituzione italiana e dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo».
Ho preso fiato. E ho formulato un’eccezione preliminare: nel decreto che mi ha mandato a processo non c’è infatti alcuna descrizione dei fatti che mi vengono addebitati. Solo generiche accuse, che non mi consentono di difendermi come si deve. Anche l’avvocato d’ufficio di monsignor Lucio Vallejo Balda ha chiesto una proroga dei termini: incredibilmente aveva conosciuto il prelato, accusato pure di associazione a delinquere, solo poche ore prima.
Quando il presidente e i suoi colleghi escono dalla stanza per deliberare sulle richieste per mezz’ora l’atmosfera si rilassa: se il monsignore comincia a parlare fitto fitto con il suo nuovo legale, la Chaouqui passeggia avanti e indietro tenendosi a debita distanza dall’ex amico. I giornalisti ne approfittano per chiedere a me e a Nuzzi i primi commenti a caldo. Una vaticanista – mentre spiegavo a una collega che i diritti della difesa erano messi a rischio – mi ha subito bacchettato: «Ti stai sbagliando, Fittipaldi. Questo è un processo normalissimo! N-o-r-m-a-l-i-s-s-i-m-o».
Sarà. Ma vedo che anche dal viso del mio avvocato trapela un po’ di preoccupazione. Anche per lei, che da anni bazzica questi saloni combattendo con i giudici per far annullare matrimoni e difendere clienti accusati di piccoli furti nel supermarket dei cardinali, questa è una situazione nuova.
Al suono del campanello che annuncia la corte siamo di nuovo tutti in fila sulla panca. Le eccezioni vengono rigettate dal collegio, come previsto. «Le udienze ricominceranno lunedì prossimo. Tutti i giorni. Mattina e pomeriggio», spiega il presidente. Penso che se la magistratura italiana funzionasse come quella del Papa, avrebbe molto meno carichi arretrati. «Ma a pensarci bene» mi dico mentre esco dal tribunale ripassando sotto l’attico di Bertone «preferisco la scalcagnata giustizia italiana».