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 2015  novembre 25 Mercoledì calendario

Per capire davvero la gravità servirebbe un altro Einstein

Einstein è scomparso, la Relatività è in ottima salute e ci servirebbe un altro Einstein. Sembra strano, eppure, nonostante i fisici in circolazione (l’80-90% cento di tutti quelli esistiti nella storia), siamo andati a sbattere contro un muro, scientificamente parlando.
L’ha spiegato ieri Fernando Ferroni, presidente dell’Infn, l’Istituto nazionale di fisica nucleare, all’incontro «Il futuro della Relatività». Ma con il sorriso degli scienziati, convinti che non ci siano misteri che non possano essere svelati. «Einstein non ha osservato, ha pensato». E nell’era della Big Science – degli esperimenti giganteschi, come quello iconico di Lhc, l’acceleratore di particelle al Cern di Ginevra – la frase suona spiazzante. Prima dei test nei laboratori e degli scontri tra protoni – dice Ferroni – ci vuole il salto quantico dei neuroni. Ecco perché un nuovo Einstein ci farebbe comodo. Ma per scoprire cosa?
L’origine e la natura di qualcosa che sperimentiamo in continuazione, senza rendercene quasi conto: la gravità. Quella che – svelò Einstein – non è una forza, ma una realtà più sofisticata. Un «pezzo» dello spazio-tempo, nel quale i corpi si attraggono non perché si tirano l’un l’altro, ma perché la massa curva e deforma sia lo spazio sia il tempo, «obbligando» pianeti e stelle ai movimenti che conosciamo. Peccato che la spiegazione einsteniana lasci molti interrogativi irrisolti e, quindi, per la gioia dei fisici c’è ancora tanto lavoro da fare.
E allora da dove partire? «Se la gravità è intrecciata allo spazio-tempo, in un unico “oggetto”, il problema è che la meccanica quantistica con quelle equazioni di Einstein non c’entra proprio». Tradotto: non possediamo evidenze che lo spazio-tempo sia una realtà quantizzata e che la gravità sia quantizzabile, ma vediamo (e misuriamo) gli effetti della gravità stessa, per esempio quelli, tutto sommato deboli, nella quotidianità. «Il punto – aggiunge Ferroni – è che l’intreccio si è verificato alle origini dell’Universo, quando lo spazio-tempo aveva le stesse dimensioni, minuscole, nelle quali la meccanica quantistica domina. Ma noi, oggi, non riusciamo a vedere le conseguenze dei suoi fenomeni, anche se li sfruttiamo, come succede con lo smartphone, mentre la gravità sa benissimo come rendersi visibile. Per esempio facendo ruotare la Terra intorno al Sole».
Ecco una frontiera aperta. «Si può pensare liberamente. C’è chi si spinge a ipotizzare anche 12 dimensioni. Se è vero che in fisica classica ciò che è vietato è vietato, nel mondo estremo dell’infinitamente piccolo molto è comunque permesso». All’interrogativo se saranno i super-acceleratori di particelle a svelare l’arcano Ferroni risponde di no. «Con queste macchine raggiungiamo energie molto alte, risalendo indietro nel tempo. Però non arriviamo al momento in cui la gravità era una forza importante. Ci fermiamo a un miliardesimo di secondo dopo il Big Bang e a questo punto la gravità era già cambiata». I fisici traducono la soglia con un enigmatico «10 alla meno 30 secondi».
Che fare, quindi? Aggiunge Ferroni che non ci si deve disperare. «Einstein, lo ricordo, non ha risolto le sue equazioni partendo da dati sperimentali. La Relatività l’ha risolta pensandola. E confido in questa risorsa – il pensiero – per scavare nell’apparente dicotomia tra Relatività e meccanica quantistica. Una questione di cui, d’altra parte, lo stesso Einstein non è venuto a capo. La verità è che dalla sua epoca a oggi non abbiamo fatto nessun significativo progresso: siamo di fronte a un problema concettuale. Siamo, in poche parole, alla filosofia della scienza».
Nell’attesa di ideare una guida che ci accompagni nell’Universo, con un credibile modello di funzionamento, ci sono altri misteri che, invece, la Big Science è decisa ad affrontare a viso aperto. Come quello – sebbene su una scala diversa dalla joint venture Relatività&meccanica quantistica – della materia oscura. Due settimane fa è stato inaugurato nei Laboratori del Gran Sasso l’esperimento Xenon 1T, che – sottolinea Ferroni – «cerca la materia che costituisce all’incirca l’80% di quella del cosmo e che tuttavia non sappiamo cosa sia. Di sicuro è figlia degli stessi meccanismi che hanno dato origine alle altre particelle e ci darà informazioni importanti. Quando l’avremo identificata, potremo stilare la carta d’identità di questo alieno e forse ricrearla in laboratorio».
Intanto Lhc – il Large hadron collider – è ripartito e «cerca nuove particelle, al di là di quelle che conosciamo». Ecco un’ulteriore sfida, che potrebbe generare allo stesso tempo nuove risposte e nuove domande. «Il Modello Standard della fisica è completo. E quindi dovremo spiegare – con gli esperimenti Atlas e Cms – come e perché quelle eventuali particelle esistono, mettendo insieme una costruzione complementare». Questo è il futuro prossimo, mentre è cronaca la partenza, il 2 dicembre, del satellite Lisa-Pathfinder. Sarà un test del test: metterà a punto l’high tech per l’osservatorio spaziale con cui catturare le onde gravitazionali, vale a dire le radiazioni (previste dalla Relatività) emesse da masse accelerate. «Ecco un altro problema che Einstein ci ha lasciato e che sarebbe straordinario risolvere nel centenario».
Le onde si intercettano con strumenti noti come interferometri. Qui, sulla Terra, ne esistono già e sono le mega-strutture Ligo e Virgo. Cercano un tipo particolare di quei segnali, figli di catastrofi cosmiche, tipo un buco nero che divora una stella o una supernova che collassa. «Nello spazio, invece, dovrebbe essere possibile intercettare le onde degli inizi, quando – come dicevo – la gravità era accoppiata alla meccanica quantistica. E a quel punto cominceremo a capire. Sarà, finalmente, l’esperimento che ci dirà in che direzione andare per combinare Relatività e meccanica quantistica». In attesa di un nuovo Einstein.