Corriere della Sera, 25 novembre 2015
La Chaouqui chiede lo status di rifugiata e vuole querelare monsignor Balda. È iniziato il processo in Vaticano
«Sono innocente. Se condannata, rifiuterò la grazia. Dovranno preparare una cella per me e una per il mio bambino». Parla Maria Immacolata Chaouqui, nel giorno in cui si è aperto il processo contro i «corvi» di Vatileaks II, rivendica la propria innocenza, si prepara a chiedere lo status di rifugiato politico in Italia. Ma soprattutto tuona contro monsignor Angel Lucio Vallejo Balda: «Lo querelo».
Addirittura. Perché? La «pierre» è un fiume di lava infuocata: «Ha depositato una memoria contro di me con accuse surreali, patetiche». Tipo? «Essere la rappresentante in Italia della mafia cinese e che ho fatto la guerra con i Tamil...».
Il dibattimento è iniziato ieri. E Maria Immacolata Chaouqui si è ritrovata nello stesso banco degli imputati con il suo ex capo nella commissione Cosea, voluta da papa Francesco per la trasparenza delle finanze vaticane. Come ci è arrivata a quella consulenza? «Sono stata chiamata dalla segreteria di Stato. Ero nella comunicazione di Ernst & Young, non avevo avuto contatti con il Vaticano, solo con qualche cardinale».
Al processo l’hanno descritta sciatta e con i pantaloni sbottonati: «Sbottonati? Non me ne sono accorta. Per me trovarmi nel luogo del cuore, dove mi sono recata per servire e ho fatto tutto gratis, è stata dura. Ma vedere Balda col clergyman, sorridere ai giornalisti e dire che sta bene è la cosa che mi ha fatto più male», accusa. E spiega: «Lui era l’unico prete della commissione. Quello che avrebbe dovuto guidarci, invece ci ha messo in questa situazione gravissima nei confronti del Papa». C’è chi obietta che la fuga di notizie è servita a far emergere la verità: «Ma il suo compito era combattere la corruzione nella Curia, non dare notizie», contesta la Chaouqui. In realtà anche lei è accusata della diffusione dei documenti finiti in «Via Crucis» di Gian Luigi Nuzzi e «Avarizia» di Emiliano Fittipaldi. Ma lei nega: «Vedrete. Non c’è una prova documentale che abbia dato anche solo un foglio».
Nel processo si ipotizzano pressioni. «Mai ricevute. Mai fatte», dice sicura. Neanche su monsignor Balda? C’è chi parla di ricatti. «Ricattarlo io? Anzi. Ho appreso dagli atti che lui aveva una grande familiarità con i giornalisti: pranzi, cene, incontri. Forse nel tentativo disperato di salvarsi, ha detto quelle cose surreali su di me».
Anche lei non è stata tenera con il monsignore. In chat lo insulta con epiteti come «verme». Come mai? «Per me è stata una persona importante, un amico. Era da solo a Roma e lo invitavo, assieme alla madre, a cena da me». I maligni hanno sussurrato di un rapporto speciale. «Ma per carità. È ben altro l’oggetto dell’interesse del monsignore. Ad un tratto gli è scattato una sorta di raptus narcisistico. Andava alle feste. Offriva cene e biglietti gratis. Quindi ho preso le distanze». Ma dirgli «sei un religioso di m...», un «povero c...» non è un po’ troppo? «Lui aveva cominciato a parlare male di me».
In quei messaggi, di lei, Balda dice: «Vuole controllare la mia vita». Di suoi ricatti sospetta anche la procura di Terni.Possibile che capitino tutte a lei? «Vorrei trovarlo almeno uno che si sente ricattato da me. Di quell’indagine ho solo letto sui giornali cose false». Accuse pesanti: aver utilizzato segreti vaticani raccolti anche grazie alla complicità di suo marito tecnico informatico. «Questa è la più bella. Mio marito, consulente informatico privato, non ha mai lavorato in Vaticano, dove è venuto solo per la messa».
Il suo avvocato, Giulia Bongiorno, parla di «reato politico» e valuta di farla astenere dal processo: «Il corpo della gendarmeria e il comandante Giani hanno l’umanità e la cortesia raccomandata da papa Francesco. Ma invocherò l’aiuto delle mie istituzioni dichiarandomi rifugiata». E se tutto dovesse andare storto? «Intanto c’è il mio bambino che è un dono di Dio. E se mi condanneranno, mi dovranno portare in galera».