Corriere della Sera, 25 novembre 2015
A pranzo con Manuel Valls, parlando di quella notte a Parigi e della guerra che ci aspetta
«Quando l’anno scorso sono diventato premier e ho passato i poteri di ministro dell’Interno a Bernard Cazeneuve, ero consapevole che un grande attentato era la minaccia più grave per il nostro Paese. Da allora io e lui sappiamo – e talvolta questo non ci fa dormire la notte – che possiamo essere attaccati. Molti attentati sono stati evitati questa primavera, ma ad ogni azione sventata sapevamo che ne potevamo subire altre». È un Manuel Valls ancora scosso a ricevere i rappresentanti di alcuni giornali internazionali, tra i quali il Corriere della Sera, per un «pranzo informale» a Matignon, la sede del primo ministro della République.
Non è una vera conferenza stampa, i toni appaiono meno controllati, Valls dice subito che salterà il discorso introduttivo per dialogare subito con i giornalisti. Magrissimo, teso, disponibile. È il premier di un Paese che ha subito il più grave atto di guerra sul suo territorio dal secondo conflitto mondiale. Per circa un’ora e mezza risponderà alle domande sul «suo» 13 novembre, sul blocco di Bruxelles, l’aiuto degli alleati europei in generale e quello dell’Italia in particolare. Lo trova all’altezza delle attese? «Si rende conto se dicessi di no?», dice lasciando forse trapelare il suo pensiero.
Valls spiega che non è ancora riuscito a misurare l’impatto emotivo di quel che è successo, «dal 13 novembre sono completamente occupato dall’azione. Credo che la presa di coscienza vera arriverà domani, ai funerali di Victor Munoz, figlio del mio amico ex direttore della Galérie Maeght di Barcellona, e venerdì, alla cerimonia nazionale agli Invalides».
La sera del 13 novembre come ha saputo che la Francia era sotto attacco? «Il presidente Hollande lo ha vissuto in diretta allo Stade de France. Anche io amo molto il calcio ma c’era già lui in tribuna e cerchiamo di non essere mai insieme nello stesso luogo (per ragioni di sicurezza, ndr). Io mi trovavo nell’XI arrondissement, il quartiere di mia moglie, dove abitiamo, a 150 metri da uno dei ristoranti attaccati, La Belle Équipe, dove è morto tra gli altri Victor, il figlio dei mio amico. Ho ricevuto un primo sms da Bernard Cazeneuve che mi informava di un’esplosione allo Stade de France e poi che c’era un’altro problema a Parigi. Pochi minuti dopo mi è arrivata la telefonata di un amico giornalista che vive sopra la Belle Équipe e che mi dice “è terribile, le pallottole arrivano da tutte le parti, ci sono dei morti”. La mia prima reazione è stata quella di dire a mia moglie Anne (Gravoin, nota violinista, ndr) “Ci siamo, ecco l’attentato che temevamo”. Ero raggelato. Non sapevamo se era finita, se l’attacco sarebbe continuato nel quartiere, altrove, se c’erano altri obiettivi. Gli uomini della sicurezza sono arrivati subito per procedere alla mia esfiltrazione e portarmi alla cellula di crisi al ministero dell’Interno, con il capo dello Stato e il ministro. Dopo sono andato sui luoghi delle stragi, ho visto i feriti, la gente traumatizzata in rue Ober-kampf. Da allora pensiamo solo ad agire».
La Francia ha subito proclamato lo stato di emergenza, una settimana dopo il Belgio ha preso delle misure spettacolari bloccando completamente la capitale Bruxelles, per giorni. Una reazione eccessiva delle autorità belghe? «Di fronte alla minaccia bisogna prendere tutte le precauzioni possibili. Non sono i governi o i loro discorsi che creano la psicosi o generano ansia nell’opinione pubblica, sono le azioni dei terroristi. Siamo delle democrazie, dobbiamo essere capaci di tenere questo equilibrio tra il bisogno di sicurezza e la vita di tutti giorni. Sono decisioni molto difficili da prendere».
Se a Parigi, come a Bruxelles, ci fosse una minaccia «precisa e imminente», anche la Francia chiuderebbe totalmente la città? «In funzione delle minacce siamo in grado di prendere tutte le decisioni. In linea di principio il mio governo non esclude alcuna possibilità. Ripeto, alcuna».
Valls spiega la posizione della Francia, difende le sue scelte, ammette con sincerità e visibile dolore che in certe situazioni noi, lo Stato, le democrazie, i cittadini, non possiamo fare niente.
«Avremmo dovuto mettere dei poliziotti di guardia al Bataclan già minacciato in passato? Ma non avevamo notizie di un’azione precisa. Gli uomini della sicurezza privata c’erano, ma sono stati uccisi. Se ci fossero stati due poliziotti davanti al Bataclan, i terroristi sarebbero andati a fare strage in un altro teatro, oppure i due poliziotti sarebbero stati uccisi. Quando si sparano raffiche di mitra sui tavolini all’aperto non c’è protezione possibile. Una volta che l’azione dei terroristi è partita è molto difficile intervenire. Dobbiamo cercare di intervenire prima, usando l’intelligence».
A chi gli fa notare che la Spagna ha avuto quasi 200 morti nell’attentato del 2004 a Madrid ma non dichiarò lo stato di emergenza, Valls risponde secco: «Non avete messo lo stato di emergenza ma avete vissuto per trent’anni con il terrorismo basco. La Spagna si è dotata di un certo numero di strumenti, compresa una procura anti-terrorismo, diversi dai nostri. E il trattamento dei prigionieri è stato abbastanza criticato dall’Europa perché ve lo ricordi. Non si possono paragonare le situazioni. Lo stato di emergenza non è una privazione delle libertà».
Mentre parliamo arriva la notizia dello stop a una linea del metro, stazione République evacuata, una valigia sospetta. «Gli allarmi sono continui», dice il premier. Si prosegue. La Germania non vuole usare la parola «guerra», così come l’Italia che teme il riprodursi in Siria di una «Libia bis».
Valls ascolta, fa un pausa, prende il respiro e dice piano: «È una guerra. Il dibattito semantico e teorico è cominciato molti anni fa perché le democrazie rifiutavano di fare un piacere ai terroristi. Ma l’attacco dell’11 settembre ha cambiato la situazione. È una guerra, non come il primo o il secondo conflitto mondiale ma è una guerra, lo dirò a Sigmar Gabriel (ministro dell’Economia tedesco, ndr )».
Quanto all’Italia, «ricordo che anche il vostro Paese è minacciato. L’Italia ha un ruolo chiave nel Mediterraneo e ha già conosciuto purtroppo il terrorismo.(...) L’Italia ha di fronte più problemi. Quello dei migranti, anche se adesso un po’ meno, e quello della Libia. È uno dei temi che affronteremo con Matteo (Renzi, che domani sarà a Parigi, ndr ): che cosa succede in Libia».
Valls si accalora per scandire che «l’Europa non può accogliere altri rifugiati», che la Francia ne prenderà 30 mila in due anni e non uno di più, e che la Germania nella questione ha preso «una sua decisione e se ne assume le responsabilità».
Sull’alleanza francese che alcuni giudicano imbarazzante con il Qatar e l’Arabia Saudita, sospettata di finanziare almeno indirettamente lo Stato Islamico, e definita dallo scrittore algerino Kamel Daoud «Un Isis che ce l’ha fatta», Valls dice che non esistono prove di legami diretti e indiretti, e aggiunge: «Sono altri i Paesi che hanno un rapporto ambiguo con lo Stato Islamico» (il pensiero dell’interlocutore corre alla Turchia). Valls chiede di aumentare i controlli alle frontiere interne e esterne, creare gli hotspot per i migranti, approvare il codice PNR per i passeggeri degli aerei. «Se non si fa questo, l’Europa è finita».