Corriere della Sera, 25 novembre 2015
È come una lite di condominio. Questo è il problema di Hollande
Il presidente francese ha risposto agli attacchi del terrorismo globale con una triplice strategia. Ha mandato i bombardieri a colpire le centrali terroristiche: questa è la classica risposta dello Stato che vede minacciata la propria sovranità e l’ordine interno. Si è poi rivolto all’Unione Europea, invocando l’applicazione dell’articolo 42, comma 7 del trattato sull’Unione Europea, e quindi chiedendo l’aiuto e l’assistenza dell’Europa: questa è una dichiarazione di debolezza dello Stato, che richiede la solidarietà di altri Stati della regione. Infine, ha promosso l’approvazione di una risoluzione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che ha autorizzato «tutte le misure necessarie», anche se non ha richiamato il capitolo 7 della Carta dell’Onu: questo passo è diretto a ottenere la «copertura» della comunità internazionale alla sua risposta esterna all’aggressione interna.
In questa triplice mossa si rivelano tutte le caratteristiche, le forze e le debolezze della globalizzazione. Innanzitutto, risalta chiaramente che problemi globali, come quello del terrorismo internazionale, non possono essere risolti con soluzioni domestiche, nazionali. Bisogna, insomma, che vi siano polizie globali incaricate di mantenere un ordine che riguarda singole nazioni, ma che è minacciato da reti estese di terroristi. Poi, si evidenzia la duplice natura della globalizzazione: se gli Stati non possono far a meno dell’intervento di organismi sovrastatali, questi ultimi da soli non bastano, perché debbono necessariamente valersi di forze statali, nelle cui mani rimangono eserciti e polizie.
Gli Stati fanno parte di «condominî» sempre più ampi, senza dei quali non possono svolgere alcune attività, ma «condòmini» rimangono gli Stati. Questi ultimi debbono sottomettersi alle regole «condominiali», anche se i titoli di proprietà rimangono nelle loro mani.
Ora, però, comincia la parte più difficile. Nessuno dei membri della comunità internazionale è disposto da solo ad affrontare la sfida, che è sia militare, sia di polizia, sul terreno. Ognuna delle potenze che detengono la forza delle armi ha bisogno della collaborazione delle altre potenze. E questo pone un problema tradizionale, di intesa tra Stati, quell’intesa che il presidente francese va cercando in questi giorni. Ma c’è un problema più vasto, che riguarda tutta la comunità internazionale, tutto lo spazio globale: vi sono nel mondo territori non governati, Stati falliti (Libia, Yemen, in parte Siria e Iraq), che sono altrettanti focolai di disordine e origine di forze terroristiche. Le organizzazioni internazionali sono interessate a restaurare poteri statali in queste aree, che altrimenti diventano fattori di destabilizzazione di dimensioni mondiali e impongono costi altissimi alle popolazioni dei Paesi sviluppati. Gli Stati Uniti, il Paese che ha finora svolto (in parte) il ruolo di poliziotto mondiale, collaborando a questo compito, sembra aver sposato la tesi esposta da Henry Kissinger nel suo ultimo libro: questo compito di ordine deve essere affrontato a livello «regionale», nelle grandi aree del mondo (l’Europa, l’America del Sud, quella del Nord, il Sud-Est asiatico), dagli organismi sovranazionali della regione, ad esempio, l’Unione Europea.
Si riaffaccia qui un problema che si pone fin dalla Seconda guerra mondiale: come forze estranee, con la legittimazione della comunità internazionale, possano, con il potere delle armi, nello stesso tempo, creare Stati, dare ad essi legittimazione, assicurarvi il rispetto di essenziali regole democratiche e del diritto. E tutto questo imponendosi a comunità locali dilaniate da divisioni tribali, etniche, di clan, e quindi tradendo il tradizionale principio secondo cui sono i popoli che si danno organizzazioni statali, scegliendone i principi e le regole costituzionali.