La Stampa, 25 novembre 2015
Due giornalisti italiani rischiano di finire in carcere per quello che hanno scritto. Nessuno trova niente da ridire?
Si profila un nuovo «caso marò», con Nuzzi e Fittipaldi al posto di Girone e Latorre? Si tratta, naturalmente, di una battuta di (amaro) spirito. Ma il processo in Vaticano per i giornalisti autori di due libri che hanno rivelato gravi scandali e molti episodi di malcostume ai vertici della Chiesa dovrebbe destare qualche allarme da parte di uno Stato italiano che, finora, ha mantenuto un inspiegabile e imbarazzante silenzio.
Nuzzi e Fittipaldi possono anche non essere simpatici, si possono apprezzare o no i loro metodi giornalistici, ci si può compiacere per i risultati delle loro inchieste o rammaricare per le conseguenze delle loro rivelazioni sulla credibilità del processo di riforma della Santa Sede che Papa Francesco ha avviato.
Quello che non è accettabile, però, è che due cittadini italiani, i cui libri sono stati stampati in territorio nazionale, rischino, da uno Stato estero, una pena che può arrivare a otto anni di detenzione per aver pubblicato notizie, fatti, dati non smentiti, anzi attraverso una documentazione inoppugnabile. Notizie, fatti, dati di sicura «rilevanza pubblica», la cui pubblicazione è consentita sia dalla Costituzione italiana all’articolo 21, ma soprattutto dalla Corte d’Europa che, con una giurisprudenza ormai consolidata da numerose sentenze, stabilisce che «l’interesse pubblico» debba prevalere persino quando viene violato un segreto di Stato.
Le modalità con le quali si è istruito e si sta conducendo in Vaticano questo inquietante processo destano, tra l’altro, molte perplessità. È stato impedito ai due imputati di un crimine non ben delineato di poter essere assistiti dai loro legali di fiducia e, così, sono stati affidati, con una sbrigativa procedura, ad avvocati d’ufficio che non hanno avuto il tempo di preparare una adeguata difesa, magari consultandosi con i colleghi che, con maggior conoscenza dei fatti, pensavano di poter esercitare questo incarico.
L’accusa, come detto, oltre a violare clamorosamente i principi generali del diritto internazionale, perlomeno negli Stati civili, è piuttosto confusa. Ieri, alla prima udienza, il promotore di giustizia, Roberto Zannotti, ha cercato di giustificarla affermando che si contesta «non la pubblicazione di documenti, ma le modalità di acquisizione dei documenti». Una spiegazione che non specifica, come dovrebbe, i presunti illeciti commessi dagli imputati, ma soprattutto ignora i diritti, ma anche i doveri di coloro che svolgono la funzione del giornalista. In questo caso, tra l’altro, non sono stati rivelati «segreti di Stato» che possano mettere in pericolo la sicurezza della Santa Sede. A meno che la dimensione dell’attico del cardinale Bertone o il parziale pagamento di quella ristrutturazione edilizia da parte dell’ospedale Bambin Gesù siano considerati, appunto, «segreti di Stato». Ci si dimentica, inoltre, che la proibizione di «divulgare notizie vietate», contenuta nelle norme del codice vaticano, può essere legittimamente invocata per i dipendenti della curia romana, ma non dovrebbe essere applicata per due giornalisti italiani.
Se il dibattimento arrivasse a una sentenza di condanna, poi, si produrrebbero conseguenze davvero farsesche e assurde. In quel caso, se Nuzzi e Fittipaldi mettessero piede in piazza San Pietro potrebbero essere arrestati dalle Guardie svizzere o lo Stato italiano dovrebbe decidere, davanti a una richiesta vaticana d’esecuzione della pena, se concedere una clamorosa estradizione. Concedendo, nel contempo, una aureola di martirio ai due giornalisti del tutto immeritata e francamente ridicola.
Al di là delle intricate questioni giuridiche, dell’applicazione di un Concordato tra Stato e Chiesa che, comunque, non può essere in contrasto con la Costituzione italiana, c’è poi un drammatico boomerang comunicativo tra questo discutibile processo e il desiderio di trasparenza, la volontà di cambiamento di un vergognoso malcostume annidato da decenni ai vertici vaticani intrapresi, con grande coraggio e, forse, in un certo isolamento, da parte di Papa Francesco. Quale fiducia possono nutrire i tanti cattolici che, in Italia e nel mondo, sperano e pregano per il successo di questa benemerita operazione di riforma papale se, alla rivelazione degli scandali, la risposta vaticana sta nell’incriminazione di chi li ha pubblicati? E se, come si dice, si volesse arrivare al verdetto prima dell’inizio del Giubileo, si potrebbe davvero pensare a un felice esordio del «giubileo della misericordia»?