il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2015
A Gardone, il paese che arma mezzo mondo. Viaggio nella valle dei fucili
Noi siamo produttori metalmeccanici. Usiamo le nostre abilità per risolvere problemi meccanici. Siamo orgogliosi di avere i migliori tecnici e artigiani”. Franco Gussalli Beretta è il presidente della Pietro Beretta, impresa con cinque secoli alle spalle. Un nome che in Italia è simbolo di un’intera industria. Eppure anche lui, quando gli chiedi che effetto fa produrre armi, sposta l’accento: “Solo il 20% della nostra produzione è rivolta alla difesa. Il resto è caccia e sport”. Proprio come Attilio, da decenni dipendente della Beretta: “Io vedo pezzi di acciaio, alluminio, polimeri. Prodotti di alta precisione. Non vedo armi. Non mi chiedo come saranno usate”.
Oggi si dice distretto industriale. A Lumezzane, pochi chilometri più a valle, c’è quello delle cucine. Qui quello delle armi. Ma Gardone Val Trompia è qualcosa di più: le armi te le trovi accanto alla culla. “Quando sono nato ho ereditato i fucili da caccia di mio nonno”, racconta Pierangelo Lancelotti, giovane sindaco Pd di Gardone. “Io lavoro per la mamma”, gli operai Beretta la chiamano così. E non è soltanto per quegli 824 posti di lavoro su 12mila abitanti. La Beretta è il paese, fisicamente: due sedi, capannoni in mezzo alle case (o forse è il contrario).
Una fabbrica moderna: uffici luminosi, piante nei reparti, “per aumentare il benessere di chi lavora per noi”, spiega il presidente. Poi, nei vicoli del centro storico, ecco via Pietro Beretta. E il Palaberetta per lo sport, l’istituto tecnico Beretta. Per non dire delle armerie che a Gardone ne trovi più dei panifici. Poi ci sono decine di fabbriche artigianali (in tutto 7mila posti), come la Piotti che produce le Rolls Royce dei fucili da caccia. Una manciata di pezzi da oltre 50mila euro ogni anno.
Tiziano Poli ti mostra i suoi fucili come un liutaio i violini: il calcio in radica, le incisioni. Armi da caccia, da sport. Le migliori del mondo, come le auto e le bici italiane. Ma anche pistole e fucili per polizie ed eserciti. Oggetti che magari finiscono nelle mani sbagliate, come quell’arsenale made in Italy ritrovato nel rifugio di Gheddafi. Qui non si fanno mitragliatrici, bombe, come nella vicina Brescia. Ma non c’è luogo dove il rapporto con le armi sia stretto come a Gardone, paese infilato in una stretta valle. Un centro storico che sa di montagna e capannoni per gente che lavora. Tanto.
“Le armi non sono oggetti qualsiasi”, Attilio prende in mano una bottiglia, “Provocano attrazione o repulsione. Sono belle, luccicanti, ma uccidono”.
Ma perché producete le armi? Te lo spiega il sindaco: “Abbiamo cominciato secoli fa. Non perché siamo bellicosi, ma qui c’erano le miniere di ferro e il fiume”. In Val Trompia si sentono così: imprenditori metallurgici e artigiani. Gente che produce centinaia di migliaia di pezzi l’anno. Al Banco Nazionale di Prova per le Armi, che ha sede a Gardone, vengono collaudate le armi da fuoco (non da guerra) importate o prodotte in Italia: “Tremila al giorno, 878mila nel 2014. Il 90% prodotte nel bresciano”, spiega Valter Piccoli, responsabile della prova armi.
“Quando le altre imprese sono in crisi, il nostro settore tende ad andare bene”, racconta il sindaco. Già, è lo strano paradosso di chi produce armi. Proprio come adesso: i venti di guerra gelano il mondo, ma soffiano sulla produzione di pistole semiautomatiche (190.430 sono passate per il Banco nel 2014) e carabine (62.514). Giorgio Beretta (nessuna parentela con gli industriali) dell’ong Unimondo sostiene: “Nel 2014 le esportazioni di armi italiane hanno toccato 1,3 miliardi, la seconda migliore performance in venticinque anni, dopo il 2012”.
Spicca il distretto bresciano: “Nel 2014 sono stati superati i 346 milioni (+9,5% sul 2013)”. Aldo Rebecchi, ex parlamentare Pd oggi presidente del Banco di Prova la spiega così: “Non ci sono impennate in questo periodo. Ma se servono armi, le abbiamo”. Non c’è solo Gardone: “C’è la OTO Melara (controllata da Finmeccanica, quindi dallo Stato, ndr) a Brescia che produce bombe intelligenti e mitragliatrici capaci di sparare 5mila colpi al minuto”. Damiano Galletti, segretario Cgil di Brescia, non lo nega: “C’è una contraddizione: tutelare l’occupazione e insieme non alimentare le guerre”. Come fare? “Dobbiamo pretendere garanzie che le armi siano vendute a paesi che rispettano i principi della nostra Costituzione.
Bisogna evitare le triangolazioni: le armi vengono esportate in paesi che poi le girano altrove”. Ancora Unimondo e l’Osservatorio permanente per le armi leggere (Opal) ricordano: “Nel Medio Oriente nel 2014 le esportazioni sono state più di 157 milioni, di cui più di 26 milioni dal bresciano”. In Nord Africa 46 milioni (27,5 milioni dal bresciano, sei volte il 2013).
Partono da qui, da Brescia. Città operaia dove la Lega va forte, ma governa il centrosinistra. Dove, se cammini nella periferia, ti trovi davanti quasi solo immigrati: siriani, pakistani, etiopi e maliani. Tanti musulmani scappati da zone dove le armi uccidono. A Gardone, all’uscita dalle scuole, incontri decine di bambini immigrati (il 30% nelle classi) e mamme con il velo.
“Se non facciamo le armi la valle muore. È la nostra tradizione, quello che sappiamo fare da secoli”, spiegano Iris e Ilaria nell’Antica Trattoria Bresciana. Ai muri la bandiera cubana e foto del Che. Davanti al portone passa un enorme suv con targa russa e vetri oscurati. Chissà cosa comprerà. “Quante contraddizioni…”, allarga le braccia Attilio, finito il turno alla Beretta, “a Gardone, a Brescia. Ma in tutto questo nostro mondo assurdo”.