La Lettura, 22 novembre 2015
Trecento anni fa, il primo settembre 1715, il Re Sole moriva a 77 anni. Versailles lo celebra
Suonano a morto i tamburi sulle scale di Versailles. Mai come in questi giorni, chi avrà l’ardire di conoscere gli ultimi attimi di vita del Re Sole, si troverà immerso nell’aura lugubre e solenne delle esequie di Stato. Trecento anni fa, il primo settembre 1715, il Re Sole moriva a 77 anni. In poco meno di due settimane, una devastante cancrena alla gamba sinistra poneva fine ai suoi 72 grandiosi anni di regno, un arco di tempo a tutt’oggi infinito. Béatrix Saule, curatrice della mostra insieme con Gérard Sabatier, ha giustamente affidato alla colta fantasia di Pier Luigi Pizzi l’allestimento delle sale della reggia, per l’occasione rivestite di velluto nero e in parte illuminate da flebile lume di candela. Fine dell’esposizione è restituire all’avvenimento un adeguato valore artistico e la giusta portata storica, entrambi dispersi dalle profanazioni rivoluzionarie e soprattutto dalla sempiterna valenza effimera del culto del trapasso.
Le ultime settimane dell’uomo che diede gloria e superbia alla Nazione, sono state passate al setaccio. Dai primi sintomi della malattia, dapprima curata con latte d’asina e poco dopo giudicata incurabile, ai pensieri più struggenti sospirati sul letto di morte, ai più inverosimili particolari autoptici che rivelarono una necrosi arrivata sino al collo, tutto è mostrato al pubblico in dettaglio. Grande risalto è dato all’antica consuetudine dell’imbalsamazione e della tripartizione, perseguita in tutte le corti d’Europa. L’usanza prevedeva l’estrazione delle interiora e del cuore, per destinarli a diversi luoghi d’inumazione. I corpi dei reali francesi, opportunamente conciati e imbottiti con le sostanze più disparate, erano riservati per le esequie solenni nell’abbazia di Saint-Denis, dove si svolgeva il vero e proprio rito funebre. Le viscere e soprattutto il cuore, conservati e racchiusi in preziosi reliquiari, erano invece merce di scambio per garantire una sorta di protezione da parte del potere ecclesiastico.
I Borboni, e quindi anche Luigi XIV, desideravano affidare il loro cuore alla chiesa gesuita di Saint-Paul-Saint-Louis nel Marais, mentre le viscere, grazie a un voto di Luigi XIII, erano rimesse alla protezione della Vergine Maria, e dunque conservate nella cripta di Notre-Dame.
Gli studi dei curatori, durati tre anni, hanno messo a fuoco e anche riscoperto, grazie a documenti inediti, il mastodontico sistema organizzativo richiesto dai funerali di Stato. I Menus-Plaisirs delle corti dilapidavano cifre folli per l’allestimento di cerimonie spettacolari, sterminati repertori di orazioni funebri erano pubblicati in edizioni macabre ma raffinatissime, partiture d’occasione erano richieste ai musicisti più affermati, i volti e i momenti più significativi erano tramandati da celebri artisti e persino usi e costumi del lutto erano rigidamente codificati e prescritti per tutte le categorie sociali. E non solo, l’insaziabile théâtre de la mort chiedeva d’incidere medaglie commemorative da diffondere in tutta Europa, dove grandiosi cenotafi erano eretti nelle cattedrali in concomitanza delle esequie.
I funerali, proprio in quanto effimeri, hanno difatti ribadito per secoli la grandezza e la potenza di uno Stato in misura maggiore di nozze e battesimi. Il corteo funebre di Luigi XIV è ricordato come uno dei più suggestivi della storia. Seguendo la tradizione spagnola, che interpretava la traslazione notturna come passaggio dal buio del trapasso all’alba della Resurrezione, il trasporto da Versailles a Saint-Denis avvenne di notte. Duemilacinquecento persone vestite di nero seguirono per dieci ore la carrozza reale trainata da otto cavalli parati a lutto. Deliberatamente, il lungo serpente di folla aristocratica non passò da Parigi per non avvicinarsi al popolo e si snodò invece lentamente alla luce di fiaccole e al suono di oboi e tamburi per arrivare all’abbazia alle prime luci dell’alba.
Dalle numerose testimonianze scritte della sua agonia, emerge l’assoluta dignità nell’affrontare le più atroci sofferenze e la caparbia volontà di far continuare tutto come prima (a pochi giorni dalla morte non volle cancellare le feste per Saint Louis e fece suonare 24 violinisti fuori dalla sua camera).
Come per rievocare il leggendario corteo funebre, anche il percorso studiato da Pizzi scorre solenne. Passo dopo passo, cadenzato dalla percussione sorda dei tamburi fasciati, il visitatore incede nei fasti barocchi di un’insolita Versailles. Il maestoso cenotafio ornato di scheletri ed ermellino, presidiato da gigantesche pleureuse in gesso, cattura sguardi sgomenti, mentre gli scintillanti strumenti chirurgici, deputati all’autopsia delle purulente carni reali, accendono perversa curiosità e strappano frisson agli animi più sensibili. Infine, alcuni capolavori, come il rubensiano ritratto di Maria de’ Medici vestita a lutto e soprattutto l’imperdibile effigie funeraria di Caterina de’ Medici, immortalata incompiuta e avvizzita da Girolamo della Robbia, portano oggi a meditazioni più colte ma non per questo meno drammaticamente attuali.