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 2015  novembre 22 Domenica calendario

Ferruccio Soleri, una vita da Arlecchino

Che cosa è un grande attore? Colui che interpreta e non imita. Più di due secoli fa, Diderot rese inflessibilmente creativo il corpo di chi recita. Il corpo dell’attore, la voce dell’attore, i silenzi dell’attore sono l’aria stessa che si respira a teatro. E quando ho visto qualche tempo fa recitare Ferruccio Soleri mi è sembrato che quel corpo piccolo, energico, ancora vitale – nonostante gli 85 anni – ci offrisse qualcosa di assolutamente speciale. E quanta bravura, quanta elettrizzante leggerezza veniva trasmessa allo spettatore. E tutto mi sarei aspettato, dopo quella magnifica esibizione, tranne il trovare un uomo che smessi i panni di Arlecchino si sentisse come svuotato. Ho pensato ai meravigliosi cartoons, alla marionette, ai soldatini di piombo che, sfidando le leggi della gravità, lasciavano negli occhi del bambino una gratitudine infinita. Ma poi, finita l’esibizione, riponevano le loro miracolose piroette in un mondo di inerzie che spegneva la fantasia. Ci sono attori grandiosi che una volta riposta la maschera spengono il corpo. «Sono un uomo normale», dice Soleri, «che per sessant’anni ha fatto Arlecchino. Ne conosco i più nascosti segreti, le sfumature, starei per dire l’anima. Perché di anima si può dire di lui, come di Pulcinella».
Soleri mi riceve nella sua casa milanese. Vedo maschere ovunque: di cuoio e in gesso. Maschere scure, rigide e inerti, che egli colleziona. Da dove nasce questa prolungata ossessione? Mi guarda. Lo guardo. Nel silenzio di una casa fredda e ordinata è come se dovessi smaltire una delusione.
Mi aspettavo di trovare un altro.
«Un altro chi?».
Un uomo che si dedica per tutta la vita o quasi a un personaggio ha qualcosa di eroico.
«Il teatro è eroico solo quando il protagonista, dopo mille recite, muore sulla scena. Se no è un uomo normale. Leggo, raramente. Più spesso faccio parole crociate e sudoku. Mi piacciono le parole come enigmi. Trovarne la soluzione: tre orizzontale: chi ha interpretato per 60 anni Arlecchino?».
Devo risponderle?
«Ce l’ha di fronte. La chiama ossessione. Vabbè. Io la chiamerei disciplina, amore, osmosi. L’immortalità che incontra il mortale e per un po’ vivono assieme. Come donna e uomo. Come amanti di tutte le sere».
Sessant’anni in cerca di un solo personaggio. Non teme la patologia?
«Ho fatto anche altri ruoli. Ma nessuno di essi mi ha dato le emozioni, la soddisfazione, la complicità di Arlecchino. Sono nato per fare questo. Un tempo si nasceva per fare il medico, l’artigiano, l’avvocato. Io sono nato per essere un attore specializzato. All’inizio non ne ero consapevole. Davanti a me c’era tutt’altra strada».
Quali sono le sue origini?
«Sono nato a Firenze. Da bambino desideravo lavorare in un circo. Lo dissi ai miei: lasciatemi provare, implorai. Ma che succede a Ferruccio? Chi gli ha messo in testa queste cose? Diceva mia madre rivolta a mio padre. Si opposero. Insistetti, minacciai di fuggire. E mio padre, paziente, mi spiegò, che il circo è come una lunga catena familiare: ne fai parte perché tutti gli altri – i fratelli, le madri, i padri, gli zii – ne fanno parte. “Tu sei solo e io, come puoi capire, non potrò mai venire con te”».
Cosa intendeva dirle?
«Mi ricordava, semplicemente, la sua menomazione. Il fatto che era cieco. In un incidente in montagna aveva perso la vista. Insegnava storia e filosofia. Certe volte lo guardavo seduto alla scrivania. Le mani prensili, stese sulla pagina braille. Pensavo: riesce a vedere con le mani. Ma come fa? Sentivo il ticchettio del bastone. Un magnete attratto dai dettagli della realtà: il marciapiede, i muri, le colonne. I ciechi, mi disse un giorno, hanno la capacità di domare l’invisibile».
La convinse ad abbandonare l’idea del circo.
«Per un po’ resistetti. Portai perfino mia sorella a vedere acrobati, domatori, clown. Sognavo di essere protagonista. A casa saltavo dal tavolo da pranzo, atterrando con una capriola finale, davanti agli occhi terrorizzati di mia sorella. Appresi così a muovermi, a scattare e flettere. A governare il corpo».
Un piccolo atleta.
«A un certo punto cominciai a giocare a calcio. Giocai nell’Audax Rufina. Ero un centravanti veloce. Un anno vinsi la classifica dei marcatori. Altre squadre si interessarono a me. La società decise di vendermi al Cosenza. Rifiutai il trasferimento. Durante una partita mi ruppi una gamba. Mi falciarono. Finirono carriera e sogni. Mi iscrissi all’università. Facoltà di matematica e fisica. Al terzo anno smisi. Avevo cominciato a frequentare l’Accademia teatrale di Firenze. Ricordo Ilaria Occhini, bellissima; Paolo Poli stravagante; Renzo Montagnani: una laurea in farmacia buttata al vento per inseguire i sogni teatrali».
E lei?
«Sentii crescere la passione. Fu Beppe Menegatti, che avrebbe sposato Carla Fracci, a consigliarmi Roma. Se vuoi fare teatro, all’Accademia Silvio d’Amico troverai i maestri giusti. Credo di avere imparato molto da Sergio Tofano, Annibale Ninchi e Orazio Costa. Dopo qualche mese fu Orazio Costa a dirmi: tu sei Arlecchino, sei sputato a quella maschera. Te lo ha mai detto nessuno? No, lei è il primo, risposi perplesso».
Come la riconobbe?
Non lo so. I versi, i gesti, la voce, il corpo soprattutto. Dentro di me vibrava un terremoto. Le mosse, i salti, le capriole, i balzi – che avevo imparato grazie al circo – li trasferii in Arlecchino. Ne feci una figura acrobatica. Ero già maschera senza saperlo».
Cosa vuol dire recitare con una maschera?
«Dare maggiore importanza alla gestualità, ai movimenti del corpo e al colore della voce. La maschera è come la statua: non manifesta emozioni. Queste vanno trovate altrove».
Il suo miglior Arlecchino nasce dal sodalizio con Giorgio Strehler.
«È vero. Nel 1955 o nel ’56 svolsi un ruolo secondario ne La figlia obbediente di Goldoni. Una specie di saggio finale per l’Accademia. Alla prova generale venne Marcello Moretti, un attore straordinario, il preferito da Strehler nel ruolo di Arlecchino. Marcello rimase molto impressionato dalla mia prestazione, tanto che ne parlò a Strehler».
Cosa accadde?
Strehler si incuriosì e volle conoscermi. Mi disse che il Piccolo sarebbe andato in tournée a New York con
Arlecchino servitore di due padroni.
E che occorreva una riserva per Moretti. Il sindacato americano aveva stabilito che una esibizione ogni sei repliche doveva essere affidata al sostituto».
Curioso.
«È stato il modo più rapido per farmi conoscere».
Com’era Strehler?
«Non era solenne. Ricordo l’uomo geniale che, in un attimo, sapeva accorgersi di cosa non andava sulla scena e dirti esattamente dove avevi sbagliato. Si spiegava con grande chiarezza e dopo, ogni gesto, ogni parola, mi apparivano naturali. Non ho mai visto nessuno padroneggiare come lui il linguaggio della tradizione e contemporaneamente dell’avanguardia».
Lei quale predilige?
«Per lungo tempo ho creduto che la mia vita di attore fosse rivolta al passato. E così è stato. Ma ho anche la presunzione di aver dato alla figura di Arlecchino una modernità che non aveva. È come se io avessi portato la luce elettrica in una stanza, fino a quel momento illuminata da una lampada a petrolio».
Cosa le fa pensare la luce?
«La luce? Non lo so. Si accende e si spegne. Serve a illuminare ma anche a nascondere. Dà profondità. Quando Amleto recita il celebre monologo è come se la luce scavasse nelle sue parole. Illumini la tragedia e i dubbi. Arlecchino è già una veste di luce, di pezze sgargianti che sbattono sugli occhi dello spettatore. La luce arlecchinesca è una continua provocazione. E poi c’è la luce interiore dell’attore. Strehler la preferiva fioca. In modo da poterla dirigere meglio. Ero uno strumento nelle sue mani. Un interruttore».
Non è una definizione riduttiva?
«Mi sono a lungo chiesto chi fossi: sono un attore e non sono un artista. Creo il minimo indispensabile. Non è un mestiere semplice. Bisogna nascondere la propria personalità. Non tentare di esaltarla. A meno di non essere toccati da un talento speciale».
Pensa a qualcuno in particolare?
«Mi viene in mente il mio amico Dario Fo. È straordinario tanto come attore quanto come autore. Ecco, lui ha preso la commedia dell’arte e l’ha trasferita nel suo teatro. L’ha trasformata in un punto di vista sul mondo. Per me la commedia dell’arte nasce e muore nella commedia dell’arte. Ho sempre ammirato l’energia che viene dal basso. La tradizione degli attori nati dal popolo, che non se la passavano bene. Non ho mai pensato che tutto questo si dovesse trasformare in politica».
Sul versante della commedia c’è anche Eduardo De Filippo.
«Anche De Filippo ha spinto la tradizione napoletana fin dentro al suo teatro; l’ha piegata ai suoi voleri. Ma non c’era in lui un “brechtismo napoletano”; come in Fo c’è “brechtismo padano”».
A proposito di commedia napoletana, l’altra grande maschera è Pulcinella.
«È un altro mondo: non opposto, ma diverso da quello di Arlecchino le cui origini sono nello Zanni. Ne è l’evoluzione. Arlecchino è un servo. Sa adattarsi alle situazioni, sfruttarle a proprio vantaggio. La furbizia è il tratto che lo distingue. Pulcinella è sfrontato. Plebeo. Affamato. Fa mille mestieri che è come non farne nessuno. In qualche caso è violento. Bastona ed è bastonato. Il ventre prominente, la gobba e la maschera col naso a becco, ne fanno una figura poco umana. Un animale che ricorda l’uccello. Un volatile rapace. Arlecchino, danza è gentile e ironico».
Un importante filosofo italiano, Giorgio Agamben, ha recentemente dedicato uno studio a Pulcinella.
«Non lo sapevo. Cosa dice?»
Dice molte cose interessanti, e ricorda anche che Tiepolo dedicò un ciclo di pitture a Pulcinella.
«Anche Picasso dedicò una serie di dipinti ad Arlecchino. Ma non mi addentrerei nella storia dell’arte, che conosco pochissimo».
Crede in Dio?
«Certo che ci credo. Sono un buon cattolico. Ma che c’entra?».
 L’attore è spesso stato una figura sconsacrata.
«Forse si pensava che trafficasse con l’inferno. Anche di Arlecchino si dice che abbia origini demoniache e che Pulcinella verrebbe dagli inferi. Ma Dio può tollerare le loro origini. Almeno spero».
Non le è mai venuto a noia fare quasi sempre Arlecchino?
«No. A volte mi vergogno di pensare a lui come a una parte di me. Ma sono certo che la mia vita sarebbe stata incompleta senza Arlecchino».
Cosa significa questa identità col personaggio?
«Non so come spiegarlo. Ma quando recito, quando sono sul palcoscenico e indosso quella maschera, vedo attraverso le feritoie il pubblico che partecipa e sorride. E penso al rigore che ho dovuto esercitare nella mia vita. Un rigore maniacale. Culto dei dettagli e sopportazione di uno sforzo prolungato. Questa è stata la mia vita».
Sempre così costantemente uguale?
«Non uguale, ricca di sfumature, di scoperte, di tempistiche diverse. Sono stato un giovane e aitante Arlecchino e ora che sono vecchio scopro che la smisurata ambizione di esserne all’altezza non è diminuita. Mi accorgo che parlando di me, parlo di lui. Devo sentirmi degno di Arlecchino, mentre lui si fa beffe del mondo».
Un’osmosi perfetta.
«Ogni grande personaggio è profondamente legato alla materia della vita. È il mio legame con lui».
A un certo punto questo legame si scioglierà.
«Lo so. Non me ne preoccupo. O forse sì. Forse dovrei».
E la sua vita privata?
«Privata, appunto. Una moglie, tre figli. Nessuno ha scelto il teatro. Nessuno continuerà la strada da me intrapresa. Giusto che sia così».
Lei l’ultimo Arlecchino.
«Arlecchino non morirà mai. Per quanto mi riguarda sono contento di ciò che ho fatto. Anche se i bilanci mi disturbano devo dire che rifarei tutto da capo. Per ora continuo».
Non ha paura di non farcela?
«A volte sì. Le acrobazie sono sempre più onerose. Ma è meglio questo che non lavorare».
Come vive le attese?
«Alla mia età è giusto che ci siano. Non mi creano più ansia. Almeno non come una volta. Attendere alla mia età è perfino un lusso. Aspetto che il telefono squilli».
E poi?
«Indosso la maschera. Anzi non me la tolgo neppure. Mentalmente è sempre sul viso».
Si sente più servo o padrone?
«Ho servito per più di sessant’anni il pubblico. Con devozione e senza furbizie. In ciò direi sono stato poco arlecchinesco».