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 2015  novembre 22 Domenica calendario

«Non credo in Dio ma nella termodinamica». Intervista a Umberto Veronesi

Che cosa rimane della vita a novant’anni quando ci pieghiamo su noi stessi fin quasi a sentire l’odore delle radici dalle quali siamo venuti? Lo domando a Umberto Veronesi che i novant’anni li raggiungerà sabato e che ha questo tempo lunghissimo scavato nella carne e nel volto, non nello sguardo. «La riflessione», risponde. «A volte il desiderio di morire».
Novant’anni, una data da festeggiare?
«Certo. Lo farò con tutta la mia famiglia. Siamo una tribù di quasi trenta persone, dai novanta ai due anni. Un’era geologica».
Quando era giovane riusciva a immaginarsi da vecchio, ha provato qualche volta a proiettarsi fin qui, nel posto dove il passato e il futuro si sono invertiti i ruoli, tanto da desiderare di più quanto ci siamo lasciati alle spalle che ciò che abbiamo davanti?
«Quando sei giovane non pensi alla vecchiaia e man mano che invecchi il confine fra “giovane e anziano” si sposta sempre più in là. Semmai si pensa alla morte, questo sì. Io ci ho pensato molto perché sono un sopravvissuto. A diciott’anni in guerra sono saltato su una mina e sono rimasto vivo per caso. O per miracolo, qualcuno direbbe. Da allora ogni giorno di vita per me è una conquista. Ho deciso che avrei colto la bellezza dell’esistenza a piene mani, finché vita ci fosse stata. E così è avvenuto. Non mi sono fatto mancare nulla».
Lei ha detto: se esiste il diritto alla vita, esiste anche il diritto di morire. Si chiama eutanasia. Sarebbe pronto a farvi ricorso?
«Senza la minima esitazione. Se una malattia mi privasse della mia dignità di persona chiederei l’eutanasia. Ho fatto anche il testamento biologico che contiene le mie volontà sulla fine della mia vita, in caso mi accadesse di essere incapace di esprimerle di persona».
È sicuro di non essere sfiorato in alcun modo da un ripensamento sull’abbandonata fede?
«Perdere Dio mi ha obbligato a cercare valori morali dentro di me. Sono sufficienti a darmi forza. L’impegno etico è la sola cosa che mi ha lasciato Dio. Non ho avuto e non avrò alcun ripensamento, ma ho continuato a studiare le religioni. È un viaggio affascinante che aiuta a capire la storia, perché le religioni sono il risultato delle circostanze e della cultura di un popolo in un determinato periodo».
La religione ai tempi della sua adolescenza era l’unica cornice della vita. L’avvertiva addosso?
«Non mi pesava perché rientrava nei riti familiari di mia madre, una donna che io adoravo incondizionatamente. I suoi gesti mi rassicuravano: recitare il rosario, preparare la tavola, mettermi a letto con lo scaldino per i piedi, accendere una candela in chiesa. Quando ho sviluppato un mio senso critico e la cornice ha iniziato a gravarmi, l’ho subito abbandonata. Mia madre ci ha parecchio sofferto, ma mi ha capito».
Come laico ha mai cercato di costruirsi un suo Dio privato e succedaneo oppure, per dirla con Nietzsche, Dio è morto e nulla più?
«Sto con lo scienziato Peter Atkins, che dice che Dio non è mai esistito».
Se si guarda indietro, qual è il suo più grande senso di colpa?
«Non aver fatto abbastanza per salvare l’umanità dal cancro».
Meglio Derrida: imparare a vivere significherebbe imparare a morire, a considerare, per accettarla, la finitezza assoluta della vita, senza salvezza, resurrezione o redenzione. O Cioran: chiunque non muore giovane presto o tardi se ne pentirà.
«Derrida dalla prima all’ultima parola. Vivere più a lungo permette di produrre più idee e le idee rappresentano la nostra immortalità. Il senso della vecchiaia è questo. E il senso della vita, in fondo».
Un’altra sua citazione: mi preparo a morire senza accorgermene. Che cosa significa?
«Considero la morte un dovere e un imperativo biologico. Fin da ragazzo ho pensato che la vita deve finire e non ha alcuna dimensione metafisica. Chi crede nella finitezza assoluta della vita è sempre pronto a morire. Non c’è da perdonare né da chiedere perdono dei peccati o redimersi per garantirsi un buon soggiorno nell’aldilà. Se le nostre idee sono la nostra immortalità, con la nostra vita di pensiero, ogni giorno ci prepariamo a morire».
La sua definizione di vecchiaia?
«La vecchiaia del corpo è un massacro.
Quella della mente no, se si è fortunati».
Quando ha cominciato a dirsi oggi sono diventato vecchio? Voglio dire, quando comincia l’età della nostra manutenzione?
«La manutenzione del corpo c’è sempre, o almeno dovrebbe esserci, ma mentre da giovane è un dettaglio della vita, da vecchio diventa un’attività prioritaria. La vecchiaia è anche questo: il corpo che non sta più dietro alla mente».
Quali sono i privilegi degli anziani, se ne esistono?
«Il potersi esprimere liberamente senza paura di rovinarsi la carriera, il matrimonio, la famiglia, i rapporti sociali profittevoli».
Tutto si perde, restano solo i ricordi?
«Sì. Dell’infanzia il sorriso di mia madre Erminia, il calore dell’amicizia degli animali. Degli anni della guerra le urla di dolore dei moribondi, gli sguardi increduli dei soldati di fronte alla follia della violenza. La prima donna che ho baciato, non rammento chi fosse, ma ricordo il suo profumo e la sensazione dello sbocciare di un sentimento. Il primo grande dolore, la morte di mio padre, Francesco. Avevo sei anni. Le persone scomparse delle quali continuo a evocare il nome, un gesto, le forme del viso o del corpo: mia madre, mia sorella Franca, i miei fratelli Pino, Lino e Antonio, Don Giovanni il prete-filosofo di campagna. Intorno ai diciotto anni ho vissuto sesso, amore e dolore. La mia vita è continuata così, in sovrapposizione permanente».
Qual è il tempo più crudele?
«Quando si perde la lucidità, a qualsiasi età avvenga».
Ha finto spesso di essere felice?
«Più che felice, ho finto di essere ottimista, per dare speranza ai miei malati».
Pensa di essere riuscito a dare un significato al suo passaggio su questa terra?
«L’esistenza in generale non ha alcun senso. La terra è un granello in un universo indifferente, è destinata a scomparire per la seconda legge della termodinamica. Eppure ho cercato anch’io di dare un senso alla mia vita e l’ho trovato nel trasmettere un pensiero che spero possa contribuire al miglioramento concreto delle generazioni future che per circa due milioni di anni ancora vivranno su questo pianeta».
Quali sono i traguardi raggiunti di cui va orgoglioso?
«I progressi nel controllo del cancro prima di tutto e poi qualche battaglia vinta nell’avanzamento civile e sociale. Come la fecondazione assistita, per fare un esempio. Poi ho creato, con l’aiuto di molte persone straordinarie, delle istituzioni, che, spero, terranno vive molte delle mie idee. L’Associazione italiana per la ricerca contro il cancro, l’Istituto europeo di oncologia e la mia Fondazione per il progresso delle scienze».
Lei è stato spesso, diciamo così, un provocatore: dalla chirurgia sul seno all’eutanasia, dal nucleare agli Ogm, dalla posizione sull’ergastolo fino al riconoscimento parziale delle ragioni dell’Is. Mai un pentimento?
«Nessuno, quelli che lei cita come se fossero errori sono stati gli impegni scientifici e civili più importanti della mia vita. Non sono un provocatore a meno che per provocare si intenda indurre a una visione diversa delle cose che si distacca dai luoghi comuni e dalle posizioni più popolari. Pensi che non sopporto neppure lo scontro verbale dei talk show.
Mi sento piuttosto un anticonformista e credo di averlo dimostrato pagandone le conseguenze, venendo preso di mira da critiche feroci. Vede, c’è un doppio fil rouge che lega tutte le mie lotte di pensiero. Il primo è il bisogno di infrangere i retaggi e le verità acquisite per sviluppare un sistema di idee e valori propri. Il secondo è la convinzione che tutti i fenomeni hanno una causa e solo agendo sulle cause si possono risolvere anche le situazioni più dolorose e tragiche. Questo è anche il senso delle mie parole sull’Is. Opporre violenza alla violenza non fa che alimentare una spirale di sangue, morte e paura. Esattamente ciò che l’Is vuole. Occorre invece capire le ragioni della follia jihadista e su queste intervenire dopo averle, non legittimate, ma decodificate».
Che cosa resterà di noi dopo la morte? Non saremo più nulla com’era prima di nascere?
«Noi non saremo più nulla ma rimarranno le nostre idee. Ce l’ha insegnato Socrate che infatti resta nel nostro pensiero anche dopo duemilaquattrocento anni».
Quali sono stati i suoi comandamenti privati?
«Credo nella libertà, nella giustizia, nella solidarietà e nella tolleranza».
E la sua fedeltà assoluta?
«Al principio dell’autodeterminazione della persona».
Siamo noi ad avere una vita o è la vita che ci possiede?
«Siamo parte di un disegno biologico codificato nel nostro Dna che ci impone di conservarci, riprodurci e poi morire».
L’aldilà è dell’anima o del pensiero?
«Non c’è aldilà. Il pensiero può sopravvivere al corpo ma in modo immanente. Il nostro pensiero può continuare a vivere sulla terra attraverso chi ci pensa».
Ricordo una sua battuta: “Ti annuncio che sono moribondo”. Perché? “In questi giorni non ho voglia di fare l’amore”. In una classifica personale delle priorità in quale posizione mette il sesso?
«Altissima. Il sesso è un’espressione vitale positiva e irrinunciabile. Oltre a essere, lo ripeto, un imperativo del Dna, che ci ordina di riprodurci».
È stato più Casanova o più Don Giovanni?
«Casanova. Ho sempre amato l’eterno femminino».