la Repubblica, 22 novembre 2015
Viaggio a Valencia, la città che ha provato a fare il salto triplo nel futuro. Ed è atterrata nel vuoto
Uno sguardo dal ponte”, di Arthur Miller, a teatro. Oppure: uno sguardo al ponte, di Santiago Calatrava, a Valencia. È notte in Spagna, ma sulla costa, a novembre, può ancora far caldo. L’estate di San Martino dura più di quella regolare, tempi supplementari di un’ora ciascuno. Guido un’auto a noleggio senza navigatore, non ho mappe e non ho studiato il percorso: tanto un ponte di Calatrava lo trovi comunque, prima o poi. Lo vedi da lontano, simile dappertutto come un negozio Zara, un franchising architettonico e paesaggistico. Infatti eccolo là, che svetta. Non il ponte, l’albero maestro conficcato sulla sua superficie, come in ogni barca, con una raggera di metallo a far vela. Costole bianche, denti bianchi, pettini, scheletri, carni o elmi di Thor: la personale archeomitologia di Calatrava è un ripetersi di simboli ormai divenuti luoghi comuni. A Venezia, a New York, ma in nessun posto come qui, a casa sua, a Valencia.
È una curiosa città, questa. Ha provato a fare il salto triplo, in un futuro che ancora non si era consolidato. Rischiava di atterrare nel vuoto e un po’ è accaduto. La voce fuori campo che sussurrava all’uomo dei sogni: «Se lo costruisci, loro verranno» ha, come spesso, mentito. Almeno nel lungo periodo. Per un po’ sono state esposizioni, coppa America, master di golf, polo universitario, poi è rimasto soltanto un gran premio di moto Gp che molti preferirebbero dimenticare per sempre.
Le città che si sono dotate di protesi in previsione di eventi, poi camminano azzoppate dal peso di quell’aggiunta non più comprensibile. Gestiscono parchi olimpici che nuove generazioni associano a nulla, alberi della vita passata e cattedrali congressuali in cui rimbomba l’eco di una fregatura. Arrivato alla città dell’arte della scienza di Valencia parcheggio, procedo a piedi verso il ponte, arrivato chiudo gli occhi e vedo il G8 alla Maddalena, le olimpiadi ad Atlanta e i fossili della festa finita o mai cominciata. Li riapro e davanti a me c’è una schiera di dinosauri bianchi e ultramoderni: Planetarium Rex, Sala delle Pteroconferenze, Teatrosauro e, va da sè, Museo. Ma più di ogni altra cosa: il ponte, questo ponte.
Un ponte di Calatrava non è un oggetto, è un concetto. Non copre una traiettoria, la reinventa, scopre e copre spazi, li fodera, in lungo e in largo. Predica la leggerezza, ma triplica l’ingombro e il budget. Comincia con un respiro di sollievo e finisce con un sospiro di disperazione. È un calcolo sbagliato in partenza e trionfale al traguardo. Abbraccia e silura. Sempre allude ad altro da sé, a valori fondamentali come la costituzione o l’universalismo. È filosofia dell’ingegneria. È la giustificazione per cui in un’opera di narrativa intitolata Nascita di un ponte la scrittrice francese Maylis de Kerangal dà al progettista il nome di Ralph Waldo, come il filosofo americano Emerson. Gli fa dire che non ha bisogno di strumenti ma solo «di un’idea e una strong philosophy» e che considera la traversata «un’esperienza intima». Vagheggia «interpretazione del paesaggio, linee di fuga, bilanciamento tra ombre, forma pura». Nel farlo disegna in aria la trazione dei cavi, la partitura dei tiranti: sembra un direttore d’orchestra.
La creazione di un ponte (o di un auditorium, a maggior ragione) è una sinfonia. I Piano, Nouvel, Gehry sono i compositori di questa epoca. Archistar è un concetto riduttivo, li avvicina ai divi del rock, mentre loro sono i Mozart dell’orizzonte, l’aria è il pentagramma. Mancava solo un passo per rendere perfetta la similitudine. Come per molti compositori, occorreva l’incompiuta. È lì che Calatrava ha mostrato il suo genio: realizzandola.
Le grandi città ne hanno immancabilmente una. Roma ha lo stadio del nuoto a Tor Vergata, New York ha “riempito” Ground Zero, manca soltanto la stazione del World Trade Center affidata a “Santiago Shubert”. Dopo di lui tutti gli altri si sono accodati: Fuksas con la Nuvola, per dire: l’incompiuta dell’Eur. Poi, sarà colpa delle amministrazioni che cambiano e scaricano i progetti che trovano, dei preventivi che lievitano, del tempo che passa e rende ogni vigilia superata. Restano intuizioni, prime pietre, scatole vuote. Forse per questo dicono che mentre gli altri architetti mandano tomi con indicazioni dettagliate Santiago Shubert se la cava con poche pagine: tanto magari non si fa, non si finisce, se non lo crei non lo distruggi.
Questo ponte, in questa notte di motori spenti, adesso che ogni rombo tace e tutte le ruote smettono di girare è una bandiera. Intorno, una città nella città. Un sogno, una grazia ricevuta. Come quella che toccò nel romanzo di Steve Millahuser a Martin Dressler: «Figlio di un commerciante ebbe un fortuna riservata a pochi: realizzare il proprio desiderio, ma questo è un privilegio pericoloso, che gli dei osservano gelosamente, cercando il difetto, il piccolo difetto che fa crollare tutto».
Ogni enclave dell’immaginazione è un personale delirio, si regge sulla visione di un singolo. Poi si fa tardi, anche il genio si addormenta e il mondo svanisce.