Amica, 24 novembre 2015
La moda deve occuparsi del mondo?
La moda è davvero capace di elevare le nostre coscienze? Ha l’influenza per plasmare il terreno (o prepararne uno nuovo) per far attecchire una nuova morale? Le domande sorgono periodicamente, quando una campagna, o una collezione, varca i confini del glamour e propone squarci di realtà, dando spazio, visibilità e dignità a condizioni e problematiche abitualmente rimosse. Nell’estate del 2008, Vogue Italia lancia la sua edizione Black, dedicata alle bellezze di colore. La cosa genera reazioni ambivalenti. Una reale vocazione inclusiva, ci si chiede, o una strategia di marketing? Un dubbio lecito, che nasce tutte le volte che una cover viene “dedicata a”. Il carattere eccezionale dell’evento finisce per rendere ancora più “diverso” quello che si vorrebbe far passare per normale, con il risultato che il tentativo di allargare i confini del proprio canone estetico finisce per essere una conferma della rigidità del medesimo. Eppure, come dice Elaine Scarry nel saggio On Beauty and Being just (Duckworth), la bellezza genera bellezza, non è qualcosa di fermo, muove e fa muovere. E da quel numero le cose sono cambiate. Lo scorso settembre, otto copertine di giornali americani ritraevano donne di colore. E, sebbene secondo i critici ci sia ancora un uso eccessivo di Photoshop per schiarire la pelle, per la giornalista Janet Mock (People, Marie Claire Usa) “è la più grande presa di potere delle ragazze di colore che abbia mai visto come giornalista”. La cosa interessante è che non si tratta solo di giornali di fashion (oltre a Vogue Usa ci sono Self, i-D, New York magazine), ma anche di lifestyle e di sport. Quest’ultimo, un elemento centrale dello stile di vita contemporaneo. Quello che la moda ha lanciato come fenomeno quasi eccezionale, quindi, è diventato un argomento condiviso. Nascendo come atti isolati, queste iniziative dei magazine vengono spesso criticate (Vogue Uk ha rimesso una modella di colore, Jourdan Dunn, in copertina nel 2015, 12 anni dopo la cover con Naomi Campbell nel 2002). Ma non importa. La moda ha lanciato il sasso, sono i cerchi nell’acqua che ne derivano a lambire la coscienza e a conquistare condivisione.
Lo stesso è successo per le modelle curvy. Lo scorso luglio, la copertina del giornale specializzato Women’s Running ritraeva la modella plus size Erika Schenk. Il buzz sui social network è stato incredibile. Fino ad allora solo ragazze sottili e scolpite erano state testimonial di un giornale per gente in forma. Anche Sport Illustrated, nel celebre numero Swimsuit, ha inserito per la prima volta una campagna pubblicitaria con una bellezza mozzafiato plus size (era febbraio). La top model curvy Candice Huffine è stata invece una delle protagoniste del calendario Pirelli 2015. Difficile non collegare quest’apertura a nuovi modelli estetici all’intervento antesignano della moda, per quanto sporadico e temporaneo. Come ha detto la modella Huffine a The Washington Post: “Con il mio lavoro voglio far capire che non si tratta di una moda passeggera o di una trovata per far scalpore. Questa è la realtà”. Il vero mutamento, secondo lei, avverrà nel momento in cui l’apparizione di una modella plus size su un giornale o in una campagna pubblicitaria non sarà materia di titoli, ma la norma. Le incursioni brevi e passeggere in nuovi e diversi territori, spesso molto in anticipo rispetto ai tempi, fanno sì che la moda venga incolpata di strumentalizzare il “diverso” per meri fini promozionali. Ma ci sono due ragioni intrinseche che la spingono a occuparsi del non conforme. In primo luogo, la bellezza della moda non è mai canonica, ma dissonante. Sebbene una modella con la vitiligine come nella campagna di Desigual faccia discutere (perché glamouralizzarla?), bisogna riconoscere che quello compiuto dalla moda è l’atto originario che apre la discussione sull’evoluzione della bellezza, sull’inclusività come esigenza di civiltà (o emergenza sociale) e lancia sonde verso il futuro, descrivendolo molto meno stereotipato del presente. È poi tipico della Bellezza del consumo, come la definisce Umberto Eco, quello di essere sincretica, ovvero comprendere ogni tipo di bellezza (fino al suo opposto, la bruttezza), in un politeismo omnicomprensivo che va da Kate Moss a Kim Kardashian. E quindi insito nel fashion questo istinto inclusivo, sebbene i primi tentativi di ritrarre il diverso possano sembrare addirittura oltraggiosi. Come dice Vanessa Friedman del quotidiano The New York Times, la moda è stata, nella sua evoluzione, tendenzialmente trasgressiva. Ha osato e saltato decenni nel costume, e in questo senso ha allargato vedute e reso condivisi atteggiamenti di punta, progressisti o egualitari. Dalle campagne di Tom Ford per Gucci fino all’ultima di Calvin Klein Jeans con coppie dello stesso sesso in atteggiamenti intimi, la comunicazione degli stilisti ha spalancato finestre sulla realtà. Eppure, ogni volta che un’immagine pubblicitaria varca le soglie delle sue pertinenze (il sogno, l’aspirazione, il bello seppur bizzarro), sconfinando nel vero e nel sociale, nella denuncia o nella miseria della realtà, scatena un putiferio. Il pubblico richiama la moda al suo ruolo di presenza muta: che bisogno ha di occuparsi del mondo, se il suo unico scopo è vendere vestiti? E qui, ancora Friedman, dà una spiegazione del perché la moda abbia la necessità di occuparsi del reale: nello stacco in avanti della sua percezione del bello, nella rottura del silenzio, c’è l’esigenza di rendersi rilevante nel contesto in cui opera, di graffiare la superficie patinata e guardare oltre, in quel futuro che disegna e produce. E che non può esimersi da descrivere come reale, ogni tanto.