Avvenire, 24 novembre 2015
«L’omicidio è un suicidio timido». Rovesciando una frase di Cesare Pavese
Ho sempre avuto dei dubbi su una celebre frase di Cesare Pavese: «Il suicidio è un omicidio timido». Che significa: «Uccidere è difficile, uccidersi è più facile». I dubbi mi si rafforzano ogni volta che un uomo spara alla moglie, spara ai figli, poi spara a se stesso, ma l’arma s’inceppa. Strano, come mai prima non s’inceppava? In questo momento i dubbi diventano più forti che mai perché abbiamo un terrorista, corresponsabile di una grande strage, in fuga per il mondo, inseguito anche dai suoi compagni di missione, perché non ha avuto il coraggio di farsi saltare in aria e perciò ha tradito. Il coraggio di una strage, sì. Il coraggio di un suicidio, no.
Cos’è più difficile, allora? Non è che la frase di Cesare Pavese va rovesciata: «L’omicidio è un suicidio timido»? E cosa significa, detta così? Significa che, finché uccidi, non capisci bene cosa vuol dire togliere la vita. Ma quando devi uccidere te stesso, lo capisci in pieno, ti spaventi e scappi. La civiltà consiste nel soffrire la morte degli altri come una propria morte. Nel sentirsi morire quando si vede morire. Io sono convinto che questo fantomatico Salah, in fuga per il mondo per non aver voluto uccidersi, soltanto adesso capisce quel che ha fatto, cos’è la strage.
Inseguendolo dappertutto, con lo scopo di punirlo per il suo mancato suicidio, i membri dell’organizzazione applicano un principio noto da sempre a queste associazioni omicidesuicide: gli inviati in missione fanno l’omicidio o gli omicidi, poi tocca ad altri toglierli di mezzo, perché non puoi contare sul fatto che loro ne abbiano il coraggio. Per chi suona la campana, di Ernest Hemingway, comincia così: i due del commando fanno saltare il ponte, scappano inseguiti dalla polizia franchista, uno viene ferito, l’intesa è che nessuno debba cadere vivo in mano del nemico, perciò il ferito si rivolge all’amico e gli chiede: «La promessa», e quello gli spara in testa. È un suicidio per interposta persona. Salah, che, ripeto, ha partecipato alla maxistrage di Parigi, fugge per evitare il suicidio per mano propria o per interposta persona. La sua missione comprendeva la morte in tutt’e due le fasi, darla e darsela. Salah si ferma davanti alla seconda fase, darsela. Perché adesso, della morte, comprende alcune cose che prima ignorava. Se le avesse comprese prima, si sarebbe fermato davanti alla prima fase, non l’avrebbe compiuta.
Uccidere vuol dire fare qualcosa che non si sa cos’è. Redimere un assassino vuol dire fargli capire cos’ha fatto. Non è un’operazione facile né breve. Perché comporta trasportare l’assassino da una morale a un’altra, destrutturarlo e ristrutturarlo. Finché questa operazione non è compiuta, l’assassino in fuga naviga in un vuoto morale, una mancanza di leggi, che gli psicologi chiamano ’anomia’. In questo vuoto, capisce soltanto gli interessi primari, mangiare, dormire, salvarsi. Il fratello gli parla il linguaggio di questi interessi primari: «Conségnati, meglio in carcere che in cimitero».
Questo fratello è convinto che Salah si sia spaventato ’prima’ della strage, e che sia colpevole di tutto l’antefatto, essere entrato nel gruppo, essere andato sul luogo, ma che, una volta arrivato sul luogo o appena è cominciata la strage, si sia pentito e abbia fatto marcia indietro, scappando.
Troppo tardi per essere innocente. Ma in tempo per essere redento, pensa il fratello. Sarebbe un ’terrorista riluttante’. Ma può esistere un ’terrorista riluttante’? Ha già risposto Dante: «Pentére e volere insiem non possi, / per la contraddiziòn che no ’l consente». Per pentérsi, comunque, non c’è un attimo, c’è tutta la vita.
Salah fa ancora in tempo.
Se vuole.