il manifesto, 24 novembre 2015
Indagine su Jonathan Swift, al di là dei Viaggi di Gulliver
Il trenta novembre del 1667 nasceva a Dublino uno dei maggiori scrittori in lingua inglese, Jonathan Swift. Sempre nella capitale irlandese, ma settantotto anni dopo, egli stesso avrebbe dettato il proprio epitaffio, perché venisse inciso a lettere dorate, in latino, su una lapide in marmo nero, da esporre nella cattedrale di St Patrick: «Qui giace il corpo di / Jonathan Swift, dottore in teologia, / Decano di questa cattedrale, / Dove feroce indignazione più non può / Lacerargli il cuore. / Va’ oltre, viaggiatore, e imita se puoi / Questo strenuo – per quanto gli fu possibile / Paladino della Libertà».
Il caso di Swift è per molti versi un caso disperato. Le biografie e gli studi critici non sono mai riusciti a fare i conti fino in fondo con definitive ricostruzioni dei suoi ultimi anni, dei suoi amori, della probabile malattia, della misantropia, delle posizioni politiche e civili in apparenza contraddittorie, e anche della presunta misoginia.
Gli esperti tendono spesso ad abbassare le mani di fronte all’impossibilità di spiegare del tutto, poi, il suo progressivo rintanarsi in un universo privato e in una sfera personale che, forse, hanno rappresentato l’unico vero spazio in cui poter dare sfogo, scrivendo e predicando, alla sua «feroce indignazione».
Inoltre, ironia della sorte vuole che, per via di squisiti fraintendimenti, Swift goda ancora, per molti, della reputazione di un autore per bambini. Ovviamente, fu tutt’altro. Se la sua identità dunque continua a sfuggire, lo stesso destino ha finito per investire gran parte di quanto scrisse.
Testi negletti
Al di là dei soliti tre o quattro magnifici capolavori ancora giustamente studiati e tradotti, la sua opera sterminata rimane in larga parte ignota, soprattutto ai lettori non anglofoni. Come il suo Manuale di conversazione, ad esempio, oppure l’abbozzo di Storia d’Inghilterra, o tanti testi catalogati come miscellanei. Una miniera d’oro, insomma, per un editore illuminato. Qualunque gita di piacere in una biblioteca universitaria del mondo anglofono dimostrerà l’esistenza di numerosi volumi dell’opera completa di Swift; e di questi, soltanto una minima parte è stata riproposta al grande pubblico.
È il caso di un suo famoso e pungente pamphlet del 1729 in cui emerge il senso profondo del radicamento in un’Irlanda, alle cui sorti Swift si sente estraneo e compartecipe al tempo stesso; un’Irlanda a cui non lesina accuse sferzanti, ma sempre e solo per difenderla. Ritroviamo questa sfuggente dualità, espressa in tutta la sua forza, in quello che è uno degli scritti più noti del decano di San Patrizio, Una modesta proposta, ripresentato in questi giorni, nei Classici Inglesi di Marsilio, in un’edizione accattivante e ben curata di Luciana Pirè (pp. 88, euro 10).
Nell’opera l’autore suggerisce, come soluzione alle piaghe determinate dalla miseria delle classi più basse del popolo irlandese, il ricorso alla pratica del cannibalismo. Tale intervento permetterebbe di risolvere in un solo colpo due problemi: la fame dei genitori poveri e la turpe presenza, per le strade, dei figli straccioni e reietti.
Ovviamente, chi voglia leggere alla lettera la proposta di Swift ricavandone un odio sviscerato verso gli irlandesi delle classi popolari, peccherà d’ingenuità e di miopia culturale, perché nel libro sono l’ironia e il sarcasmo a farla da padrone, stratagemmi tipici del sentire ambivalente di un intellettuale non a caso descritto da più d’uno studioso come un Tory Anarchist, un anarchico conservatore. La coesistenza di queste due facce viene ottimamente colta dalla curatrice, la quale ricorda come «i suoi concittadini l’avevano acclamato ’il patriota ibernico’, recuperando l’appellativo arcaico dei popoli celtici. Un patriota, certo, ma il patriota involontario di una ’terra di schiavi e paludi’. Il legame con l’Irlanda era cresciuto nel tempo come la gramigna, in un groviglio di avversione e appartenenza».
È di questi nostri anni la riscoperta puntuale del legame viscerale che Swift aveva con la sua terra, con la cultura, la letteratura e la lingua degli irlandesi. A dispetto di quel che in tanti ancora ci si ostina a ignorare, soprattutto alla luce dell’ambizione di Swift, mai realizzata, di lasciarsi alle spalle l’isola di smeraldo, tutta una serie di studi stanno gradualmente dimostrando come il suo rapporto con l’Irlanda fosse tutt’altro che occasionale. Sono state reperite prove di contatti regolari e approfonditi con esponenti di spicco della cultura e della letteratura in lingua irlandese, e si è proposta persino l’ipotesi di una sua certa familiarità con l’idioma nativo.
La vicinanza alla causa irlandese è dimostrata in modo incontrovertibile, ad esempio, dalle Lettere del drappiere, in cui il reverendo si scaglia, anonimamente e a più riprese contro la licenza concessa dal gabinetto inglese a un imprenditore di coniare, ad uso esclusivo del popolo irlandese, monete di lega inferiore a quelle usate in Inghilterra. Swift scorge in maniera chiara e limpida i contorni di un sopruso inaccettabile, e scrive le sue invettive con onestà e ironia, fino ad ottenere, come risultato, addirittura la revoca della licenza.
Un simile sentire anima un altro scritto interessante, Una proposta per l’uso universale della manifattura irlandese. In questo il decano di San Patrizio incoraggia il suo popolo a boicottare i prodotti d’importazione provenienti dall’Inghilterra, a tutto vantaggio dell’economia irlandese e delle sue produzioni. Il motto della proposta – che si ripromette di rappresentare provocatoriamente l’inizio di una vera e propria campagna commerciale anti-britannica – è l’esortazione a bruciare tutto ciò che provenga dall’Inghilterra, eccetto il loro carbone.
Proposte sarcastiche
Certo, da qui a fare di Swift un «patriota» vero e proprio, la distanza è ovviamente abissale. Perché questo grandissimo esponente della cultura irlandese patriota non era, ma soltanto, come s’è visto, uno «strenuo paladino della libertà».
Di una libertà a tutti i costi? Oppure soltanto di uno suo spazio delimitato? Su questi aspetti Swift ragionò in un pamphlet uscito anonimo composto nel 1713, in risposta a un altro scritto che ebbe molta più eco, il Discorso sul libero pensiero, di Anthony Collins. Rispose a lui, e idealmente ad altri fautori di quel free-thinking tanto inviso, ad esempio, alle gerarchie religiose conservatrici sia della Chiesa d’Inghilterra che del mondo cattolico, con un «compendio» reperibile in traduzione in un bel volume curato da Rosanna Camerlingo, Contro il libero pensiero (Edizioni della normale, pp. 98, euro 10).
In questo, il più libero fra i pensatori esprime la propria contrarietà al libero pensiero in materia di politica o religione, proponendo riflessioni solo apparentemente retrograde e anti-illuministe. Come spiega bene l’altro scritto incompiuto incluso nel volume, riguardante considerazioni miscellanee sempre sul libero pensiero, Swift si schiera dalla parte della sensatezza, e non dell’istinto, dando voce a uno scetticismo di fondo nei confronti della bontà della natura umana: «la differenza tra un matto e uno in possesso dell’intelletto nel parlare consiste in questo: che il primo dice la sua su qualsiasi cosa gli viene in mente, e solo nella maniera confusa in cui la sua immaginazione presenta le idee.
Il secondo esprime solo quei pensieri che il suo giudizio gli indica di scegliere, lasciando il resto morire nella sua memoria. Se anche il più saggio esprimesse i suoi pensieri, in ogni momento e nel modo crudo e indigesto in cui gli vengono in testa, sarebbe ritenuto un pazzo delirante».
Il volume contro il libero pensiero è un misto di gravità e umore comico. Il reverendo Swift è sempre pronto a scherzare, ma immancabilmente con la massima serietà; e tale caratteristica la dice lunga sul legame tra la sua formazione e una certa tradizione satirica irlandese viva sin dai tempi del medioevo. Se il reverendo Swift si mantiene sempre in totale spirito di libertà, questo è perché ha il coraggio di indignarsi sia di fronte ai soprusi – a cui risponde con le armi di cui dispone, l’ironia e l’arguzia – sia di fronte a comportamenti che oggi chiameremmo per certi versi massimalisti. Ma il segreto della sua grandezza è proprio l’essere egli stesso un pirotecnico massimalista. È in questo spazio condiviso che sia l’incoraggiamento a pensare prima di agire, sia l’incitamento al cannibalismo, trovano terreno comune. Il terreno di una squisita forma di saggezza, la cui unica, irriducibile fiaccola, sono l’intelletto e la creatività.