La Gazzetta dello Sport, 24 novembre 2015
Quattro chiacchiere con Bora Milutinovic, l’anti-Mourinho
Da qualche anno il suo posto al sole è Doha, in Qatar. Niente panchina, poco campo: esclusivamente una carica da ambasciatore. Bora Milutinovic, 71 anni, riassume così: «Vado in giro, vedo le cose che funzionano in qualsiasi settore: concerti, logistica, hotel, menù dei ristoranti e faccio le mie raccomandazioni a chi deve organizzare il Mondiale. Insomma, sono un consulente di vida». Ride. Una vida loca, come la sua, che lo ha portato in giro per il mondo al comando di nazionali improbabili: Messico, Costa Rica, Usa, Nigeria, tutte traghettate al di là del girone a gruppi di un Mondiale, un traguardo da record. E poi allenatore anche della Cina, mai andata a una finale di Coppa del Mondo prima del suo arrivo: storico. Soltanto imprese buone per gli almanacchi, nessuna Coppa (a parte due Gold Cup) o trofeo che possano essere appese in una bacheca. Un professore di calcio, più che un cinico ganador : «Quello è Mourinho, un tecnico che non ha scelta: costretto a vincere a ogni costo. A me, invece, è sempre piaciuto insegnare».
Italians do it better
Bora Milutinovic sembra aver fermato il tempo: stesso taglio di capelli alla Ringo Star; stesso andamento lento e spiccato senso dell’umorismo. Gesticola sulle avenue di Manhattan mentre ti spiega chi sono i maestri che lo hanno ispirato o che apprezza oggi. Dice: «Sacchi per la sua filosofia di gioco. Ancelotti per gli esercizi e la capacità di correggersi. Capello per la grinta e il ritmo. Trapattoni per la mentalità. Mancini per l’organizzazione degli allenamenti». Tutti italiani. Ma giura, con la sua miscela accattivante di spagnolo e italiano, che non è per via dell’interlocutore. «Ho un profondo rispetto per Guardiola, per esempio. Da calciatore era intelligentissimo, ha tutte le qualità del leader. Ma non si può copiare il Bayern, perché nessuno ha i suoi giocatori». Però nel suo personalissimo ranking, il migliore è ancora un mezzo sconosciuto: «Veljko Paunovic. Allena l’Under 20 serba, fresco campione del Mondo: strategia, cura del lavoro. Presto vedrete, formidabile». Suggerisce di farsi avanti in fretta. Scherza con il cameriere messicano con cui si mette volentieri in posa davanti all’iPhone manovrato da sua moglie Maria, incontrata e sposata nella prima avventura a Città del Messico negli Anni 80.
Viareggio, e quella volta a Torino
Bora è nato in Jugoslavia, ora Serbia: papà morto in guerra, mamma di tubercolosi poco dopo. Cresciuto dai fratelli maggiori, calciatori del Partizan Belgrado come lui. Non ha mai messo radici, per questo lo chiamano affettuosamente lo Zingaro. Ha una figlia, Darinka: «Vive in Messico, perché ama quel Paese». Come si senta lui, è una di quelle domande cui non sa rispondere. Glissa. Riparte dal suo primo viaggio in Italia, con i ragazzi del Partizan: «Al torneo di Viareggio, primi anni 60, contro il Milan di Trebbi e Trapattoni. Ricordo anche di aver visto Rivera in A quei primi anni, era proprio un fenomeno. Io, invece, assomigliavo al Trap». Riappare il sorriso contagioso. Racconta uno dei suoi aneddoti favoriti: «Per la prima volta qualificai la Costa Rica a un Mondiale, Italia ’90, dove vincemmo anche la prima partita della storia di questo Paese e andammo agli ottavi. Nel gruppo c’era il Brasile, che affrontammo al Delle Alpi. La nostra terza maglia era a strisce bianconere, così pensai che se fossimo scesi in campo con quei colori il pubblico sarebbe stato dalla nostra parte. Quelle maglie, però, non le avevamo. Allora chiamai il mio amico Montezemolo, che avvertì Boniperti e risolvemmo il problema. Quel giorno a Torino indossammo las camisetas della Juventus. Perdemmo 1-0, ma giocammo alla grande».
Da Rocky a Denzel Washington
Si definisce un uomo di sentimenti, senza essere un sentimentale. Uno di mentalità aperta, che però crede fermamente nella disciplina. Dice: «Con gli Usa, la prima cosa che dissi a Lalas fu di tagliarsi i capelli: “Perché ci sono i ragazzi che ti guardano in tv e dobbiamo dare il buon esempio”, gli dissi. Capì. Per far parte delle mie squadre ci si deve comportare bene, dentro e fuori dal campo. Altrimenti mi arrabbio». E uno come Balotelli come lo gestirebbe? «Oggi è un’epoca diversa. Credo nel dialogo. Cercherei di sapere tutto anche della sua vita personale. È sempre stato il mio metodo: l’allenatore come una figura paterna e uno psicologo». Già, la psicologia: una delle sue specialità. Spiega: «È fondamentale motivare: io uso i film. Ai cinesi feci vedere Remember the Titans con Denzel Washington (Il sapore della vittoria in Italia,ndr); ai messicani Rocky; agli americani la biografia di John Wooden, il mitico coach di Ucla. Funzionò».
Udine, che delusione
Perché a parte rare eccezioni ha preferito il ruolo di c.t. a quello di allenatore di club? «Perché con le Selecciones è un po’ come giocare a fantacalcio: scegli chi vuoi. Perché hai più tempo a disposizione per correggere gli errori. Perché amo scoprire i talenti, la cosa più gratificante del mio lavoro». A Udine, nel 1987, però, non fece miracoli. «La squadra era in serie B, marcavano ancora a uomo, Fontolan era infortunato. Non riuscii a cambiare quella filosofia e Pozzo mi licenziò dopo poche giornate». Cita i calciatori che ammira di più, a parte i soliti Messi e Ronaldo: «Xavi, Iniesta e Pirlo. Se hai gente così non hai problemi». Lui gente così non l’ha mai avuta. Sorride malinconico, ma senza un pelo di rimpianto. L’ultima lezione del maestro Bora è il lungo elenco dei suoi trofei, quelli che non possono essere esposti nel salotto di casa: «Nell’86 ho portato il Messico ai quarti e al 6° posto senza mai perdere, dopo che avevano mancato la partecipazione nel 1974 e 1982 ed essere arrivati ultimi nel 1978. Nel 1998 con la Nigeria vincemmo il girone battendo Bulgaria e Spagna. Nel 1994 con gli Usa fui eliminato agli ottavi dal Brasile con uno striminzito 1-0. Nel 2002 ho qualificato la Cina al loro unico Mondiale con 12 successi e un pari in 14 partite nelle qualificazioni. Devo dimostrare altro? Io sono felice così».