il Giornale, 24 novembre 2015
Vittorio Feltri litiga con l’orologio da quando era adolescente: «Ma in redazione comanda più del direttore»
La lotta contro il tempo mi vede sempre sconfitto. Litigo con l’orologio da quando frequentavo le elementari che imponevano orari rigidi e levatacce. Il ricordo di quell’epoca mi angustia ancora. Le lezioni cominciavano alle 8. Mi dovevo alzare alle 6.45. Il suono della sveglia, di quelle da caricarsi con la chiavetta, era forte e sgradevole, addirittura minaccioso. Abbandonare il tepore delle lenzuola e delle coperte equivaleva a una tortura. Ero intontito e di umor nero. Poi, il rito dei lavaggi. In quegli anni di immediato dopoguerra gli scaldabagni funzionavano a legna, erano sifoni enormi che si accendevano un paio di volte la settimana. Cosicché, nella maggior parte dei giorni feriali, dai rubinetti usciva d’inverno acqua gelida. Se anche solo bagnavi un dito eri percorso da brividi.
Vestirsi era un altro supplizio. Un occhio alla sveglia, che inesorabilmente segnalava il trascorrere dei minuti, e uno al guardaroba in cui scegliere il meno peggio che offriva. Ancora: la cartella con i quaderni, l’astuccio, il sussidiario. Non poteva mancare nulla. Seguivano controlli per verificare di non avere dimenticato qualcosa. E le lancette che giravano. Infine, la colazione: il latte che scottava, il cacao che non si scioglieva, i biscotti che diventavano poltiglia. Ingurgitavo e mi lanciavo giù dalle scale, di corsa alla fermata del tram. Che transitava sempre qualche secondo prima del mio arrivo.
Aspettavo la vettura successiva, camminando nervosamente avanti e indietro. Altra corsa per arrivare a scuola ed evitare la ramanzina del maestro. Oddio, che ansia. Nell’aula c’era una pendola. Alla quale riservavo più attenzione che all’insegnante. Le lancette erano lente, lentissime. Mezzogiorno era un miraggio. Il trillo liberatorio della campanella elettrica arrivava sempre in ritardo rispetto alle mie aspettative. La scolaresca scattava in piedi all’unisono e si precipitava all’uscita in gruppo accalcandosi alla porta. I compagni sgomitavano per essere i primi a guadagnare lo scalone e la strada.
Nel pomeriggio, dalle 14 alle 16, ancora lezione, altro combattimento con la pendola. Campare così era una sofferenza atroce. Dopo la quinta, superato l’esamino d’ammissione (allora c’era pure quello), cominciavano le medie, tre anni di analisi logica, sintassi italiana, latino a tutto spiano fino alla traduzione del De Bello Gallico, algebra e varie scocciature accompagnate dal ticchettio di un orologio se possibile ancora più fiacco della famosa pendola. Due ore di italiano, due ore di matematica, un’ora di francese: se il tempo a casa trascorreva veloce, in classe non trascorreva mai. Una persecuzione che non è mai cessata nemmeno alle superiori. E nemmeno molto più avanti, al lavoro.
La mia esistenza – forse quella di tutti – si è consumata in modo assurdo mentre mi dibattevo, e mi dibatto, in una contraddizione: la paura di non essere puntuale nel fare ciò che devo e la noia che caratterizza l’attesa di potermene andare per i fatti miei. Nei giornali la puntualità è di rigore. Negli anni Sessanta e Settanta ero cronista in quotidiani del pomeriggio; tre o quattro edizioni ogni dì, ciascuna delle quali era tale quale un treno: doveva spaccare il minuto. Ovvio, i giornali viaggiavano su mezzi pubblici e aziendali che osservavano al secondo gli orari. E noi, poveri tapini, costretti a fare i salti mortali per consegnare gli articoli secondo il minutaggio prefissato. Scrivevi e non avevi modo di riflettere: battevi a macchina senza rileggere una frase.
L’orologio comandava più del direttore. Quando avevi riempito due o tre cartelle, non c’erano storie: il capocronista ti strappava i fogli dall’Olivetti, compulsava in un attimo gli elaborati e li spediva in tipografia. L’estensore, terminata la propria fatica, si lasciava andare tramortito sulla sedia. L’angoscia del tempo che non ti concede pause è ancora endemica nei giornali. La frase che circola più spesso nelle redazioni è questa: spicciati perdio che siamo in chiusura. Significa che le rotative non stanno mica lì ad aspettare i tuoi comodi. Girano e basta all’ora prestabilita. E le pagine non possono andare in edicola bianche, senza testi e senza titoli. Serve correre, non è lecito esitare. Poi qualcuno si stupisce se i giornalisti scrivono delle semenze. Provate a vergare un tema in 22 minuti lordi.
Arriva il momento in cui non ce la fai più. Ho visto colleghi schiattare mentre consultavano l’orologio terrorizzati all’idea di non essere cronometrici. Non è vero che il tempo sia tiranno: è una grandissima rottura di coglioni. Alla quale non sfugge nessuno. Tutte le professioni (tutti i mestieri) si svolgono in ossequio all’orario, a parte quella dei magistrati che sono indipendenti perfino dall’orologio. I pensionati poveracci sono vincolati al calendario, dato che si affannano per arrivare alla fine del mese con l’assegnino dell’Inps, costantemente minacciato di decurtazioni.
Il concetto di tempo è relativo. Quando sei giovane una giornata vola via in fretta, e un anno è un’eternità. Quando sei vecchio invece un giorno è lungo, difficile da riempire con attività che lo rendano sopportabile, e un anno si brucia in un baleno. Ti trovi ottantenne senza accorgertene.