Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 24 Martedì calendario

Intervista a Paolo Isotta, implacabile stroncatore di errori e inadeguatezze

Sublime narratore della musica classica e dei suoi protagonisti ma anche implacabile stroncatore di errori e inadeguatezze, Paolo Isotta, napoletano, classe 1950, musicologo, scrive da oltre 40 anni: prima al Giornale, poi lungamente al Corriere e, recentemente, calata la tagliola dei pensionamenti in Rizzoli, è approdato al Fatto.
Negli ultimi due anni poi s’è aggiunta una vena saggistico-autobiografica, con due libri, La virtù dell’elefante e, più recente, Altri canti di Marte, entrambi usciti per Marsilio. «A 65 anni», risponde se gli si chiede il perché di tanta prolificità, «ho un’armonia interiore e una forza mai avute prima; e sono unanimemente riconosciuto un vero scrittore. Tutti gli ostacoli mi hanno rafforzato ma non tutti gli attacchi da me subiti erano ingiusti. Persino l’esser stato posto fuori del Corriere della Sera ha contribuito al mio prestigio».
In quest’ultimo libro, dove c’è molta storia musicale.
«Oltre che parlare di Mozart, Beethoven, Schubert, Berlioz, Verdi, Wagner e Ciaikovskij, offro sistematicamente una nuova prospettiva storica del Novecento musicale».
Ma cita anche dello sterminio dei delfini e delle omelie di Giovanni XXIII. Nel primo libro, il suo appassionato racconto artistico, ogni tanto, viene però inframezzato da incursioni nella politica. Che rapporto ha con la politica?
«Già Platone nella Repubblica e nelle Leggi teorizza lo stretto vincolo tra politica e cultura».
Altissima premessa, Isotta.
«Che mi permette di osservare come la destra italiana del Dopoguerra abbia sempre disprezzato la cultura: ciò vale tanto per il vecchio Msi quanto per la Democrazia Cristiana e per Silvio Berlusconi. E che invece il Partito Comunista, conscio dell’intuizione di Antonio Gramsci che il potere nella società si conquista attraverso l’egemonia culturale, la cultura italiana, dal 1945 in poi, abbia egemonizzato, è logica conseguenza. Il nazismo..».
Il nazismo?
«Il nazismo, nella sua follia, creò una politica sottoculturale da imporre alla nazione; il genio di Mussolini fu di favorire la cultura in tutte le sue forme. Poi si ridicolizzò e, insieme, si fece del male imponendo agli insegnanti il giuramento di fedeltà al regime».
Già, però lei chiarisce d’esser sempre stato un uomo di destra, fascista addirittura. Come è riuscito a sopravvivere al Corriere che, in certi anni, non era proprio indulgente, per così dire, verso la destra?
«Negli anni del Corriere non ho, come sempre, fatto politica ma dal punto di vista culturale non ho concesso un solo sconto».
Come ha fatto?
«Da una parte mi ha sorretto una forza interiore che si tramutava, credo, in autorità; dall’altra sono incorso in una serie di grandi direttori, da Franco Di Bella a Ferruccio de Bortoli, i quali mi hanno sempre garantito con stima e affetto la massima indipendenza. Uno solo mi voleva licenziare».
Chi fu?
«Alberto Cavallari, uomo infelice, affetto da odium humani generis».
Ricordandolo da vivo.
«Egli era ostaggio del Pci; ma il Pci mi fece la guerra – quando venni assunto ci fu uno sciopero e una raccolta di firme della cultura italiana contro di me – perché a sua volta ostaggio dei salotti milanesi, impasto di denaro, snobismo e castrismo. Mi disse lapidariamente Carlo Bo: “Il Pci ha dato il culo per niente ai salotti milanesi!”. A proposito dei salotti, voglio ricordare uno dei più bei proverbi».
Quale?
«Dio me guarda d’o pezzente sagliuto!»
Splendido napoletano, ma traduciamolo.
«Che Dio mi protegga dai nouveaux riches!».
Ne La virtù dell’Elefante ricorda come le cose non fossero facili, per uno di destra, neppure al Giornale Nuovo, tant’è vero che chi la sostituì, quando lei andò al Corriere, ossia Piero Buscaroli, figlio di un del grande latinista Corso che aveva appoggiato Salò, fu obbligato allo pseudonimo. Anche Indro Montanelli, dinnanzi alla nomea del fascista, doveva chinare la testa. Con tutto che del fascista glielo davano anche a lui!
«Montanelli viveva nel terrore d’esser considerato fascista. Il padre di Buscaroli fu vittima di un’orrenda persecuzione. Montanelli si comportò con lui vergognosamente coll’imporgli uno pseudonimo temendo di essere attaccato per l’accettare la collaborazione di un uomo che rivendicava i meriti del fascismo. Poi, certo, Buscaroli, sommo storico della musica ma non proprio un modello di equilibrio, si giuocò l’elezione al Parlamento europeo sostenendo che gli omosessuali sono malati da curare
Ma questa è un’altra storia. Torniamo a Montanelli, come fu il suo rapporto con lui? Lei scrive che cessò di essere un grande uomo quando si mise, pure lui, a odiare Berlusconi.
«Con me fu paterno, protettore, delizioso. Quanto a Berlusconi, gli aveva salvato il Giornale senza nulla pretendere: credo che sulla generosità del Cavaliere ni nessuno possa eccepire un iota. Montanelli, in tarda età, andava in cerca di una legittimazione a sinistra; e forse sentiva intollerabilmente il peso dei benefici di Berlusconi».
Il Cavaliere le fa citare, nel medesimo libro, Marcello Dell’Utri verso il quale ha parole di stima e fa voti che venga assolto in Cassazione. Lei è convinto che contro lui e Berlusconi ci sia stata una persecuzione giudiziaria?
«Il mio giudizio politico su Berlusconi è, col tempo, mutato, facendosi severo. Ma che sia stato vittima d’una persecuzione giudiziaria, mi sembra lampante! Del pari va detto di Dell’Utri che, del gruppo berlusconiano, è stato l’uomo più colto e intelligente, quindi quello da eliminare a ogni costo».
Lei cita Francesco Saverio Borrelli, dicendo che non le piaceva anche senza averlo conosciuto, e poi, più avanti, fa dice che Antonio Di Pietro era capace di «baci del lebbroso». Che ne pensa della giustizia in Italia? C’è stato davvero un uso politico di questo potere?
«Il Pci e le sue successive incarnazioni hanno creduto che la magistratura fosse un taxi che potevano chiamare a piacimento. A causa loro essa è diventata un potere autonomo e sconfinato che del Pci e incarnazioni, fino al Pd, fa un proprio taxi pagandolo in quanto gli serve».
Già, ma lei oggi scrive però per Il Fatto che ha l’antiberlusconismo e il giustizialismo nel Dna.
«Beh, se uno dovesse per scrivere avere un giornale a sua immagine e somiglianza, dovrebbe attendere sino alla fine dei tempi. Del Fatto condivido molte posizioni politiche, non certo tutte; ma Marco Travaglio possiede un culto per la libertà e tale libertà mi concede quale collaboratore».
Isotta, sempre ne La virtù dell’Elefante, c’è un passaggio mirabile sul ministero della Pubblica istruzione, «cogestito dai sindacati» e poi occupato dai sessantottini. Sindacati che hanno fatto sempre il bello e cattivo tempo nei teatri italiani.
«Nei teatri i sindacati hanno sempre svolto politiche di accumulo di privilegi e hanno contribuito al disastro delle fondazioni lirico-sinfoniche. Ma il disastro è causato dai soprintendenti che per avere la pace interna concedono loro tutto».
E cioè?
«È causato dai soprintendenti che sperperano sconsideratamente, che vogliono fare i direttori artistici per presunzione, ignoranza, egolatria. È causato da una legge, quella istitutiva delle Fondazioni, che ha distrutto l’equilibrio in qualche modo ancor vigente colla vecchia legge 800 e che ha abolito la figura del direttore artistico nominato autonomamente dal soprintendente. Ma i sindacati hanno nella scuola arrecato il maggior danno alla nazione».
Spieghiamolo bene.
«I comunisti avevano interesse a distruggere la scuola per preparare una società di servi, i democristiani a distruggere la scuola perché la cultura, come ho detto, faceva loro paura. Così l’egualitarismo introdotto nella scuola ha distrutto ogni criterio di valore. Il liceo italiano, ancora negli anni Cinquanta e all’inizio dei Sessanta, era il migliore del mondo».
Adesso?
«Adesso fa ridere: l’ignoranza degli insegnanti è proverbiale. Seguo il figlio di un amico, che è al liceo classico, e vorrebbe iscriversi a Lettere: non sono riuscito, in tre anni, a fargli leggere I promessi sposi perché Gaetanino, così si chiama, è oberato di compiti a casa. Gli insegnanti ignoranti ne danno una caterva, io ne avevo pochissimi nel mio meraviglioso liceo, tanto che potevo permettermi di studiare musica contemporaneamente. Mentre le letture assegnate sono i romanzi di Italo Calvino e Niccolò Ammanniti! Chi non conosce Manzoni a memoria, sarà pure un premio Nobel, ma resterà sempre un pezzente intellettuale».
Diceva dei democristiani ma, proprio nel suo ultimo libro, c’è, invece, in una pagina, una riabilitazione della Dc, partendo dall’elogio di Ortensio Zecchino, già ministro dell’Università. Cosa ha capito, ex post, di quel partito che invece, prima le provocava sentimenti viscerali?
«Infatti, sin qui ho detto il male che penso della Dc. Ma questo partito ha ricostruito la nazione dopo la catastrofe bellica e, fino a un certo punto, l’ha governata non ignobilmente. La statura culturale di statisti come Moro, Fanfani, Leone, Andreotti, è immensa. Moro e Andreotti sono stati, ciascuno a suo modo, vittime di poteri oscuri e fortissimi come a suo tempo lo fu Enrico Mattei. Ma si pensi a un grande statista, Bettino Craxi, morto addirittura in esilio e che, forse, sarebbe stato dopo Moro l’obiettivo delle Brigate Rosse».
Moro, alla cui morte lei festeggiò, come ha ammesso. Perché tanto odio?
«Il mio apprezzare il buono del fascismo – oggi ne comprendo il male, ma non lo definirei mai il male assoluto – mi faceva odiare la Dc che mi pareva che avvilisse la dignità nazionale e l’idea di Patria. Ho confessato liberamente di aver esultato alla notizia dell’assassinio di Moro: avevo 27 anni. Credo che una qualità nessuno potrà disconoscermela, quella di esser capace di cambiare idee e convincimenti, e di riconoscere gli errori».
Lei è stato un grande stroncatore negli anni del Corriere, ma spesso ha rivolto la sua vis polemica anche ad altri. Nel primo libro, dedica due pagine al vetriolo a Claudio Magris e ricorda il blitz di De Bortoli per bloccare un suo elzeviro un po’ offensivo. Chi sono, oggi, i protagonisti della cultura che lei reputa sopravvalutati? E perché?
«Viviamo nel mondo dell’apparenza: il difficile è, nelle lettere e nelle arti, indicare chi non sia sopravvalutato. Tra gli scrittori non si riesce quasi, salvo alcuni «grandi vecchi», come Raffaele La Capria e Guido Ceronetti – e non come Alberto Arbasino, un impasto di fatuità e vanità – a trovarne oggi uno che conosca la lingua italiana. Il più pulito tiene la rogna».
Tanto per non girarci intorno. Ma se mai un governo la facesse ministro della Cultura, quali sarebbero le prime due o tre cose che farebbe?
«Lei mi cita una commedia degli anni Trenta, Pulcinella principe in sogno!
Sono ignorante di teatro, maestro.
«Beh, non saprei da dove cominciare ed è giusto che io non sia mai ministro».
Lei è un credente, nell’ultimo libro racconta che un’omelia di Papa Giovanni XXIII l’ha commossa fino alla lacrime. Le piace la Chiesa «in uscita» bergogliana? Ci si ritrova?
«Mi offende il disprezzo per la liturgia e per la dottrina e quello per il latino è storia vecchia. Ma Papa Francesco ha enorme coraggio».
Vale a dire?
«Si è battuto per la Siria, ha ricordato il genocidio degli Armeni. È testimone angosciato del martirio che oggi i cristiani subiscono nel mondo per confessare la fede: mai i martiri furono così numerosi.