Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2015
Perché è giusto non far fallire le banche
Quando si parla di credito e di banche, la prima regola da seguire è quella di misurare toni, valutazioni e giudizi. Non solo per il ruolo critico che hanno le banche nel sistema finanziario ed economico di un Paese, ma soprattutto per il rischio di spaventare risparmiatori, soci, clienti e mercati sulla sicurezza dei propri risparmi e investimenti. Se i problemi sono grossi e urgenti, scatta la regola numero 2: discutere e concordare con il sistema bancario la migliore strada da seguire, dare certezza normativa ai piani di salvataggio, minimizzare non solo il costo a carico di clienti e investitori della banca in crisi, ma anche quello scaricato sulle altre banche concorrenti. Aiuti di Stato non sono permessi: dopo aver messo 3.800 miliardi euro a garanzia dei salvataggi bancari durante gli anni della crisi e una cifra altrettanto grande in aumenti di capitale, Ue e Bce hanno tolto dalla partita Governi e contribuenti.
Ma se lo Stato non paga più nulla e il salvataggio di una banca è tutto a carico di azionisti, obbligazionisti, correntisti e banche concorrenti, quale giudizio si può dare alla manovra Salva-banche e alla gestione dell’emergenza fatta dal governo italiano? E infine: i decreti varati negli ultimi giorni danno più certezze al mondo del credito e ai mercati, o scaricano interamente sulle banche e i loro azionisti costi e rischi che potrebbero pesare negativamente tanto sulla fiducia dei clienti quanto sul corso dei loro titoli in Borsa?
Le risposte a molti di questi interrogativi ancora mancano, ed è difficile anche giudicare l’accoglienza che ha dato il mercato alle procedure decise e varate dal governo. Il buon rialzo evidenziato ieri in Borsa dai titoli bancari italiani, peraltro in una seduta debole per gli altri comparti, è certamente incoraggiante: di solito, gli acquisti sono indice di gradimento. Ma è anche legittimo ritenere che più del merito e delle procedure fissate dai decreti salva-banche, il mercato abbia premiato l’urgenza finalmente attribuita alla soluzione della crisi delle quattro banche popolari. L’emergenza di questi e di altri istituti, travolti dalla crisi e da cattivi amministratori, si trascinava infatti da troppo tempo, creando timori e incertezze per tutti: se l’Italia avesse recepito le direttive e varato i decreti a inizio anno invece di arrivare a fine novembre (siamo stati gli ultimi in Europa), la crisi di quattro popolari, le cui dimensioni sono a stento regionali, non solo sarebbe già chiusa, ma si sarebbe soprattutto evitato il clima di paura e di incertezza suscitato tra i risparmiatori da scenari immaginari o volutamente apocalittici. Fino a qualche giorni fa, per esempio, si dava quasi per certo non solo l’azzeramento delle azioni e dei bond delle quattro banche, ma anche il possibile prelievo di fondi dai conti eccedenti i 100mila euro. Alla fine, il salvataggio avverrà con l’azzeramento dei titoli azionari e dei bond subordinati (riservati tra l’altro agli investitori istituzionali e non al retail) ma senza alcun costo per gli obbligazionisti ordinari e per i correntisti. I 3,6 miliardi di euro necessari per l’operazione di salvataggio, insomma, saranno interamente finanziati dal sistema. A questo proposito, è bene tenere presente che per quanto frazionata tra più istituti, la somma da versare al Fondo di Risoluzione gestito da Bankitalia non è affatto di poco conto: 3,6 miliardi di contributi sono quasi la metà dei profitti totali che le banche italiane prevedono di contabilizzare nel 2015.
Il percorso che avevano inizialmente proposto le banche – quello del salvataggio volontario con fondi versati interamente dal sistema bancario nazionale – non avrebbe invece pesato in alcun modo su nessuna categoria: correntisti, azionisti e bondholder. Dopo aver sperimentato questa strada nel salvataggio di banca Tercas, è stata l’Europa a bloccare altri «salvataggi volontari»: per la Ue, si tratterebbe di aiuti di Stato non permessi. Posizione curiosa, questa, se si pensa che procedure simili sono state permesse alla Germania, e che in realtà lo Stato italiano non ha versato nulla nel salvataggio della Tercas. Comunque sia, anche se più onerosa per il sistema bancario, la nuova procedura chiude l’incertezza normativa che si era venuta creare negli ultimi mesi. E di questo sembra aver preso atto anche la Borsa, che ieri ha dato ossigeno ai falcidiati titoli bancari. Ma di qui ad affermare che tra Borsa e banche sta per tornare la luna di miele il passo è lungo: l’esito della risoluzione, il prezzo a cui saranno vendute le “good banks” e quello con cui saranno acquistati dal mercato i crediti in sofferenza conferiti alle “bad banks” saranno il vero spartiacque tra aspettative e realtà, sia in Borsa sia nell’economia reale.
In una fase di stagnazione economica come è ancora quella italiana e con il cappio delle nuove regole sui ratios patrimoniali che pesa sui loro bilanci, a soffrire del prelievo e del complesso scenario normativo creato dalla Ue non saranno solo le banche, i loro azionisti o i mercati: il conto che oggi pagano le banche, rischiano di pagarlo domani l’economia italiana e le prospettive della ripresa.