Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 24 Martedì calendario

I gol tardivi di Pavoletti e la tenerezza di un eterno ragazzo che sogna ancora la Nazionale

Butta la palla dentro, e poi vediamo. Non c’è tempo per un altro cross. Non c’è tempo per un secondo colpo di testa. Rimane una sola occasione. Quella. Al Genoa sanno di cosa si parla. Oltre il 90’ hanno già segnato con Laxalt il 3-3 al Torino e con Tachtsidis il 3-2 al Chievo. Un anno fa gli invasati di Gasperini avevano addirittura esagerato: quattordici gol nell’ultimo quarto d’ora, più di tutti in serie A, di cui sei fra novantesimo e dintorni. È gente che sa come si fa. E se c’è da segnare all’ultimo respiro, non c’è persona migliore di un ragazzo salito sull’ultimo treno che passava. Leonardo Pavoletti, per esempio. Un altro dei post-giovani d’Italia. Quelli che hanno rincorso, con l’occhio al tabellone del quarto uomo, convinti di avere sempre qualche minuto di recupero.
Di solito la gioia dell’ultimo istante è la più preziosa. Ci metti le mani sopra e sai che ai cattivi non rimane più tempo per portartela via. Quando era ragazzo, nell’età in cui si è prigionieri dell’ottimismo e delle fantasie, Pavoletti Leonardo da Livorno aveva in testa un sogno solo: giocare nello stadio della sua città. L’Armando Picchi, quello di idoli come Lessi e Stua, il prato per cui Cristiano Lucarelli pronunciò il celebre motto “Tenetevi il miliardo”. Poi al Picchi ci arrivi, dopo la serie D, dopo la Lega Pro, e scopri che fare il bagno d’estate a Quercianella non ti basta più. Fa tenerezza ora, Pavoletti, mentre a ventisette anni (li compie dopodomani) racconta di sognare la Nazionale, mentre si dice pronto per il grande salto e lo dimostra pure, con cinque gol in nove partite, in media uno ogni 132 minuti, per intendersi meglio di Bacca e di Gervinho. Però la Nazionale, come va spiegando Conte, adesso è un’altra cosa. È un gruppo chiuso, ormai. Si sa, le gerarchie. Ci gioca chi ci ha giocato già, non hai fatto in tempo, peccato, è stata tua la colpa e allora adesso che vuoi.
La longevità è dei Totti e dei Buffon, la precocità è dei Rivera e dei Meazza. I Pavoletti crescono facendo lo stesso famoso baccano della noce che cade dall’albero: unica, sola e silenziosa. Francesco Antonini, padre della geriatria in Italia, spiegò in “L’età dei capolavori” (Marsilio, 1991) che il cervello di un giovane è paragonabile a un calcolatore «molto veloce e potente ma con pochi programmi inseriti, incapace perciò di esprimere tutte le proprie potenzialità». I Pavoletti avranno pure un software migliore, perché se lo sono costruiti nel tempo, spesso nell’ombra; solo che il tempo è comunque passato, e il mondo pare propenso a disperarsi solo per gli spazi che si sottraggono agli implumi. I Cabrini e i Paolo Rossi si portano ai Mondiali all’ultimo istante, tu sei Pavoletti, non hai il curriculum, la competenza, vallo a spiegare che il problema casomai sta in un sistema che non sa più reclutare, che ha bandito la pazienza, l’attesa; un paese che non ha avuto voglia di scoprire i Magnanelli, i Croce, i Soddimo, figuriamoci se può occuparsene adesso, al novantacinquesimo e oltre.
Pavoletti – bisogna che qualcuno abbia il coraggio di avvertirlo – continuerà a segnare e a guardare l’Italia in tv. Potrà forse consolarlo il pensiero di Indro Montanelli, toscano come lui, convinto che «il bordello è l’unica istituzione italiana dove la competenza è premiata e il merito riconosciuto».