la Repubblica, 24 novembre 2015
In mostra a Milano Francesco Hayez, il vate del Romanticismo divenuto un’icona pop
Nel 1983, sull’onda della riabilitazione della cultura accademica divulgata da grandi mostre allestite in Europa e in America negli anni ’70, Milano celebrò il centenario della morte di Francesco Hayez (1791-1882) con una grande rassegna monografica, curata da Fernando Mazzocca e Maria Cristina Gozzoli, che ne decretava l’indiscutibile appartenenza al gotha del Romanticismo europeo, sdoganando i suoi grandi dipinti storici, paradossalmente eclissati dalla sovraesposizione mediatica del “Bacio”, divenuto un’irresistibile icona pop, ed esaltandoli alla luce del vivacissimo dibattito critico che ne aveva accompagnato l’uscita in pubblico e da un illuminante confronto con il melodramma contemporaneo. A più di trent’anni da quella mostra, Milano torna a celebrare con una spettacolare rassegna monografica il maestro veneziano (“Francesco Hayez”, Milano, Gallerie d’Italia in Piazza Scala, fino al 21 febbraio 2016), che proprio nella capitale lombarda trovò il terreno fertile in grado di assicurargli quel ruolo di caposcuola della pittura storica nazionale, che fin dal 1841 gli fu riconosciuto dall’esule Mazzini in un appassionato saggio pubblicato su una rivista londinese. Regista dell’evento odierno è di nuovo Fernando Mazzocca, che ha orchestrato il più vivido e aggiornato ritratto storico-critico del pittore, allineando un centinaio di sue opere capitali e riversando in questa scelta e nel magistrale saggio in catalogo tutta la sapienza filologica e interpretativa accumulata in decenni di studi su Hayez e sull’Ottocento.
Nato a Venezia da una famiglia modesta, Francesco fu precocemente avviato alla pittura nell’Accademia lagunare, dove ben presto l’autorevole studioso che la presiedeva, Leopoldo Cicognara, ne intuì il prodigioso talento, inviandolo nel 1809 a Roma con un pensionato triennale che gli garantiva l’alloggio in Palazzo Venezia e affidandolo alle cure all’amico Canova. Il giovane frequentò lo studio del grande scultore, che svolse un ruolo centrale nella sua formazione, ma strinse anche amicizia con il più anziano Pelagio Palagi e con i coetanei tedeschi del gruppo dei Nazareni, precoci fautori di un ritorno al Medioevo. L’Antico, le Stanze Vaticane, Reni, Domenichino, Guercino, l’alternativa dialettica tra disegno tosco-romano e colore veneto: esempi antinomici a confronto che avevano paralizzato a lungo perfino giovani artisti della tempra di David, ma non il giovane Francesco, cui Canova, con il plasticismo pittorico delle sue statue, dai contorni nettamente profilati e dal marmo reso così morbido da sembrare “vera carne”, fornì il filo d’Arianna per operare una sintesi tra linea e colore, capace di tradurre in realtà la speranza di Cicognara di aver trovato il giovane in grado di coniugare Tradizione e Modernità, Ideale e Natura, avviando il “Risorgimento” della pittura nazionale.
Tra il 1812 e il 1817, Hayez brucia le tappe: ottiene con il Laocoonte un clamoroso successo al concorso di Brera, si cimenta in Palazzo Torlonia nel recupero della tecnica “nazionale” dell’affresco, compie soggiorni di studio e lavoro a Firenze e a Napoli, per poi tornare nella capitale pontificia, vincere a mani basse il concorso dell’Accademia di San Luca con l’Atleta trionfante e rientrare a Venezia, ma non prima di aver celebrato le nozze con Vincenza Scaccia: matrimonio felice e duraturo, anche perché non impedì alla già collaudata esuberanza erotica del pittore d’inanellare svariate relazioni, di cui quella con Carolina Zucchi è solo la più nota. Il triennio 1817-20 vede il pittore impegnato, tra Venezia e Padova, in un’attività di decoratore che ne esalta la vena incontenibile, ma ben altri sono i suoi traguardi e presto egli si rende conto che solo Milano offre, con Brera e gli stimoli di un mercato artistico vivacissimo, alimentato da una committenza colta in cui serpeggiano fermenti carbonari, l’ambiente ideale per i grandi progetti che ha in mente. Nasce così nel 1820 il Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri, salutato a Brera da un clamoroso successo che, consacrandolo vate del Romanticismo storico in Italia, lo induce a stabilirsi a Milano, dove gli si spalanca la strada delle committenze più prestigiose e della cattedra di pittura a Brera. Per il pubblico ottocentesco, che nei soggetti scelti nella storia medievale, coglieva al volo le allusioni politiche di stretta attualità patriottica, la chiave di lettura di questi quadri storici consiste in un processo di immedesimazione melodrammatica, favorito dalla pratica di dare ai personaggi storici fattezze di noti contemporanei. Così, in rapida successione, al Pietro Rossi seguirà il manzoniano Carmagnola condotto al supplizio e, in un crescendo di orchestrazioni via via più complesse e di smaglianti rivisitazioni del cromatismo veneto, la prima e la più tarda versione dei Vespri siciliani, il Pietro l’eremita che predica la crociata, i Profughi di Parga, e via enumerando fino alla più spettacolare di tutte, la Sete patita dai primi Crociati sotto Gerusalemme.
Ma ai quadri storici si affiancano i ritratti, spesso degni di rivaleggiare con quelli di Ingres, i dipinti sacri, i soggetti biblici, le magnifiche odalische e la carnalità sontuosa e accattivante delle eroine bibliche: le Tamar, le Rebecche e le Betsabee. O le indimenticabili fanciulle torve e sapientemente discinte in malinconica meditazione, allegorie di una patria “bella e perduta”, riecheggiate magistralmente nei marmi di Vincenzo Vela (anch’essi puntualmente esposti). Temi risorgimentali che registrano le speranze, ma anche le brucianti battute d’arresto e le delusioni del processo di affrancamento dal dominio straniero, non meno delle tre versioni del Bacio, nelle cui significative variazioni cromatiche delle vesti è leggibile il trapasso dalla gioia per la liberazione della Lombardia, che affratella i tricolori italiano e francese, alla delusione per l’armistizio di Villafranca del luglio ‘59, che lasciava la sua Venezia e il Veneto sotto l’Austria.