La Stampa, 24 novembre 2015
Lo Stato costretto a restituire tutti i beni a una banda di ladri sinti. Con tante scuse
Nel gran calderone della Giustizia, può succedere come è successo ad Asti che una banda di sinti condannati per associazione a delinquere si veda restituire con tante scuse il frutto delle loro malefatte – un milione di euro -, solo perché i meccanismi dei processi si inceppano in rivoli e ritardi che noi umani non possiamo capire, fino alla prescrizione. Albert Einstein diceva che «il mondo è quel disastro che vedete non tanto per i guai combinati dai delinquenti, ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare».
Se Einstein pensava al mondo, noi possiamo più prosaicamente guardare inorriditi a questo magma incomprensibile in cui si disperde la nostra Giustizia, fra cavilli, leggi e leggine che si sommano crudelmente ai suoi ritardi endemici.
La storia di Asti è il riassunto di tutto questo. Alla banda di sinti hanno restituito conti correnti bancari e postali, polizze assicurative, terreni, gioielli, camper di lusso e auto sportive. Denaro e beni sequestrati nel marzo 2006 e ora tornati ai legittimi proprietari causa prescrizione. Nei giorni scorsi il giudice Federico Belli ha firmato il decreto: il processo per ricettazione non è mai giunto a sentenza.
La vicenda
Nel 2006 la banda era da tempo sotto osservazione da parte dei carabinieri che avevano pedinato per mesi con microspie e gps le loro scorribande dall’Astigiano alle case violate forzando porte e finestre o raggirando gli anziani proprietari con mille scuse. Tra le zone più colpite l’Alessandrino, la città di Genova e i paesini dell’Appennino Tosco-Emiliano. Nel bottino finivano contanti e oggetti preziosi, ma anche forme di Parmigiano trovate in frigo. Razziatori di professione
Il gip di Asti Aldo Tirone, applicando una legge speciale del 1992 aveva approvato le richieste del pm Luciano Tarditi di sottoporre a sequestro preventivo i beni dei presunti ricettatori e dei loro familiari. Si riteneva che si trattasse di «provento di attività criminale». Ma poi il fascicolo della maxi inchiesta dei carabinieri si è disperso in decine di rivoli, letteralmente spezzettato dall’astuzia di un pool di avvocati specializzati da anni nella difesa dei sinti piemontesi. All’udienza preliminare nell’autunno 2007 il giudice Cesare Proto, ora in Cassazione, accogliendo le tesi della difesa aveva suddiviso l’inchiesta: il processo per l’accusa di associazione per delinquere era stato affidato al tribunale di Asti, i casi singoli di furto erano stati spediti ad una miriade di uffici giudiziari competenti per territorio e la ricettazione era stata rimandata al pm Tarditi per la «citazione diretta» come previsto per i reati precedentemente gestiti dalle vecchie preture.
Le sentenze
Il guaio è che i sequestri erano basati sull’accusa di ricettazione, l’unico tra i reati contestati per i quali è prevista l’applicazione della norma su sequestri e confische. Se il processo per associazione per delinquere è giunto nel 2010 a pesanti condanne in primo grado (oltre 25 anni complessivi per i 12 imputati, con pene che arrivavano fino 5 anni di reclusione), esito diverso hanno avuto le altre accuse. Dei furti non si sa più nulla, sparpagliati tra una decina di tribunali di città della pianura Padana.
Sulla ricettazione i movimenti del fascicolo sono incerti. Assente per malattia il pm Tarditi, ieri in procura e in tribunale nessuno ha voluto rilasciare dichiarazioni. Pare che il faldone abbia sonnecchiato per un po’ di anni sulla scrivania del pm, che poi ha proceduto alla citazione diretta davanti al giudice onorario Massimo Martinelli. Il quale è stato sommerso di eccezioni formali da parte dei difensori dei circa 30 imputati delle famiglie di sinti, trovandosi costretto a fissare numerose udienze solo per dirimere gli aspetti procedurali. Così si è arrivati al 2015, quando Martinelli ha dovuto prosciogliere tutti per «intervenuta prescrizione». Proprio quanto volevano gli avvocati, che avevano cercato in tutti i modi di far perdere tempo.
Restava da compiere, per i sinti, il passo finale. Riavere soldi, gioielli e macchinoni. Gli avvocati Ferruccio Rattazzi, Davide Gatti e Marco Calosso hanno sollecitato un «incidente di esecuzione» davanti ad un altro giudice, Federico Belli. Il quale, lette le carte, ha convenuto sul fatto che gli ex imputati prescritti avessero ragione. Ha dissequestrato tutto. Con un’ulteriore beffa: le spese del deposito dove sono stati custoditi caravan e auto sono a carico del ministero della Giustizia.