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 2015  novembre 24 Martedì calendario

Quattro ore e mezza di spettacolo, due intervalli, 17 personaggi e 32 cambi di scena. Al Piccolo c’è “Der Park”, diretto da Peter Stein

Proviamo a raccontarvelo, ma nulla vale l’esperienza diretta. Der Park di Botho Strauss, dedicato a Peter Stein e da Stein messo in scena nel 1983 alla mitologica Schaubühne di Berlino, è una sinfonia teatrale di quattro ore e mezza con due intervalli, 17 personaggi e 32 cambi di scena, in cui c’è di tutto. Lo Shakespeare del Sogno, intanto, ma rivisitato: con Oberon (Paolo Graziosi) e Titania (Maddalena Crippa, che di Stein è anche la moglie) di ritorno sulla terra, destinazione il Tiergarten di Berlino, per reinsegnare la sensualità agli umani. Ma anche i miti greci, Pasifae e il Minotauro; e il razzismo, l’inaridirsi della cultura, la crisi delle coscienze, la reificazione dell’arte.  
Ci si può immergere nel gorgo da domani al 6 dicembre allo Strehler di Milano, unica tappa di una mini tournée dello spettacolo prodotto dal Teatro di Roma. Peter Stein ne parla da Vienna, dove sta mettendo in scena per la Staatsoper L’affare Makropulos di Janacek.
Quanto differisce questo «Park» da quello originale degli anni Ottanta?  
«Pochissimo, perché io mi limito a riprodurre tutto quello che è scritto nel testo senza interpretazioni arbitrarie, e il testo non è cambiato. C’è qualche minimo aggiustamento, e visto che il cast non è lo stesso sono diverse le relazioni fra gli attori. Nella sua versione italiana, mi pare, è diventato un oggetto d’arte, dove i cambiamenti di scena assumono un rilievo particolare e offrono spunti interessanti anche senza le parole degli attori».
Ha fatto i conti anche con un sé stesso di trent’anni fa.  
«Soprattutto con una pièce che mi è molto cara e che ha conosciuto varie difficoltà. In Francia l’ha diretto un altro regista. Il Piccolo me l’aveva rifiutato (il teatro nega questa circostanza, ndr). Sono contento di averlo fatto a Roma, anche se il progetto complessivo per quel teatro era molto più ampio. Ci hanno fregato i tagli. E non sono stato pagato perché i soldi per farlo non c’erano più: così, ho investito personalmente in due settimane di prove nella mia sala».
Consigli per gli spettatori che si preparano a vederlo?  
«Entrateci come in un labirinto. È lungo. Ma non è faticoso, perché i temi e i personaggi variano di continuo».
Il debutto a Milano coincide con un momento drammatico per l’Europa. Come interagiscono il testo di Botho Strauss e il contesto angoscioso di questi giorni?  
«Una grande pièce parla sempre dei temi basilari dell’umanità: non si tratta di inseguire le informazioni che arrivano dalla tv o dai giornali, ma di cogliere nel testo le radici dei problemi di oggi. Quello che accade in questo periodo maturava dalla metà del secolo scorso. E per chi ha 78 anni come me le cose assumono una prospettiva diversa. Non dimentichiamo che l’Europa, nel 1945, era più distrutta della Siria di oggi, e che in Germania si riversarono 12 milioni di profughi. L’isterismo, le malinconie e gli allarmismi non ci aiutano. Ci vuole freddezza, osservare con precisione gli avvenimenti».
Dopo «Makropoulos», che cosa sta preparando?  
«Fare teatro è sempre più complicato: per riuscirci devo autofinanziarmi. Di sicuro c’è solo, per il 2017, un Riccardo II al Metastasio di Prato. Per fortuna la Scala mi fa lavorare: per quattro giorni al mese vengo a Milano come docente all’Accademia. E con i giovani musicisti progetto un Flauto Magico».