Corriere della Sera, 24 novembre 2015
Al Torino Film Festival proiettato per la prima volta il film del 1949 sulle ultime ore di Mussolini. La censura di Andreotti lo bloccò per non «ingenerare all’estero errati e dannosi apprezzamenti sul nostro Paese»
Ci sono voluti sessantacinque anni, ma alla fine Tragica alba a Dongo ha trovato il suo primo pubblico, quello del Torino Film Festival dove ieri è stata proiettata la copia restaurata a cura del Museo Nazionale del Cinema. Perché questo strano «film-documentario» – come si autodefinisce nella lunga didascalia introduttiva – che dura solo 37 minuti si è conquistato un posto nella storia del cinema italiano per la sua invisibilità: non solo perché si considerava perduto (una copia è stata ritrovata fortunosamente in una cantina austriaca) ma perché Giulio Andreotti, ai tempi sottosegretario del governo De Gasperi con delega allo spettacolo, gli negò il visto di censura «in quanto si ritiene che possa ingenerare all’estero errati e dannosi apprezzamenti sul nostro Paese».
Quella nota, che porta la data del 24 gennaio 1951, fu la pietra tombale sul film che due ex partigiani, Emilio Maschera e Ugo Zanolla, avevano deciso di produrre, per ricostruire – sempre come dice la didascalia all’inizio del film – «la più misteriosa tragedia politica del secolo». Sicuramente di misteri nel Novecento ce ne sono stati altri, ma nell’Italia dell’immediato dopoguerra (le riprese, durate quattro mesi e mezzo, iniziarono nel 1949) la Resistenza armata e le sue gesta era qualcosa su cui in molti volevano stendere un velo di silenzio, soprattutto dopo le elezioni del 1948.
Nasce probabilmente da qui, dalla voglia di ricostruire l’episodio della cattura del Duce in fuga verso la Svizzera su cui già si accavallavano versioni contrastanti, l’idea del film, la cui realizzazione fu affidata ai giornalisti Vittorio Crucillà e, per la sceneggiatura, Ettore Camesasca.
Cinematograficamente il risultato lascia molto a desiderare: gli interpreti erano tutti dilettanti, o peggio, e solo il direttore della fotografia, Duilio Chiaradia poteva vantare un vero curriculum. Ma non era certo la drammaturgia o la recitazione le qualità che stavano più a cuore ai promotori del film. A loro interessava la verità dei fatti: «La macchina da presa – si legge ancora all’inizio del film – ha ricostruito e ripete fedelmente fatti, cose, ambienti e uomini così come apparvero e agirono in quelle tragiche giornate d’aprile».
Gli interpreti erano gli stessi partigiani che avevano catturato Benito Mussolini (impersonato da un attore che si vede poco e solo di spalle, così come Claretta Petacci); i due contadini che ospitano il Duce nella sua ultima notte sono gli autentici coniugi De Maria e la camera da letto è quella vera di casa loro; i discorsi che si sentono, le accuse che rivolgono al prigioniero sono certamente quelle che furono davvero pronunciate in quelle ore. Proprio quella «verità» che faceva paura a chi era al potere.
Qualche cosa oggi può far sorridere: l’uccisione del partigiano Mirko nello scontro con l’autoblindo (che il montaggio mette dopo la prima trattativa con l’ufficiale tedesco a capo dell’autocolonna che risaliva il lago di Como mentre invece avvenne prima), qualche eccesso di retorica nel commento fuori campo, la voglia di leggere nelle condizioni meteorologiche un contrappunto alla drammaticità di quelle ore.
Ma è il senso dell’operazione che non può sfuggire: quello di un cinema che cercava, con molta fatica, di aprire gli occhi agli italiani mentre altri volevano farli chiudere.