Corriere della Sera, 24 novembre 2015
Nelle città del futuro gli abitanti condivideranno case, auto e informazioni
Nel 1811 un visionario progetto cittadino chiamato Commissioners’ Plan fece di Manhattan la città-griglia che conosciamo oggi: una rete di street e avenue tutte perfettamente parallele e con distanze geometricamente predisposte a tavolino. Il lavoro era iniziato nel secolo precedente, Anno Domini 1797, e la prima mappa della «City of New York» è datata 1807. Il Commissioners’ Plan è stato giudicato come il singolo più importante documento nello sviluppo della città americana più famosa del mondo anche se, nella storia, è stato criticato come prova evidente della «predilezione dei repubblicani per il controllo». In ogni caso quell’atto fu uno di quei momenti irreversibili che per ogni città del globo si è verificato poche volte nei secoli o, addirittura, nei millenni.
Milano riflette ancora oggi nella sua anima a raggiera l’essere stata, al tempo dei romani, un accampamento militare costruito sulle ceneri della precedente città celtica Mediolanum. La struttura urbanistica meneghina si è andata poi ad adattare in epoca medievale alle nuove esigenze demografiche: ancora oggi la cerchia dei navigli coincide sostanzialmente con un tracciato ellittico del XII Secolo. La stessa storia potrebbe essere ricostruita per tutte le città del mondo, con un minimo comune denominatore: da queste strutture non si torna indietro se non in maniera drastica e inaccettabile. Il Dna delle metropoli, una volta codificato, non si può più cambiare se non rompendone l’equilibrio: l’ultimo grande intervento a Roma fu la costruzione di via della Conciliazione in epoca fascista, un intervento che rase al suolo un antico borgo. In epoca più recente uno degli atti di maggiore devastazione di una città è avvenuto prima delle Olimpiadi cinesi del 2008 quando sono stati condannati interi antichi quartieri tradizionali di Pechino in nome del progresso.
Piani regolatori e flussi migratori
Non è un caso che oggi si operi sulle strutture con i «piani regolatori» e sui flussi «migratori» quotidiani degli esseri umani con talpe meccaniche e gallerie sotterranee. Ma nonostante i paletti imposti dalle mura fisiche questa breve storia delle città serve per capire come dietro alla formula banale della smart city – che sembra paragonare un’intera città a un gigantesco prodotto come uno smart phone – si celi in realtà un Commissioners ‘ Plan per ogni città del mondo che vorrà approfittarne. È un nuovo tipo di architettura o, anche, di design delle città. Non si vede ma si vedrà. La trasformazione è un’occasione unica di rimodulare i flussi caotici ed inefficienti ma non, come si pensa erroneamente, dei soli dati digitalizzati: è vero che secondo le previsioni di Cisco una città di un milione di abitanti nel 2019 genererà ogni giorno 180 milioni di gigabyte – motivo per cui il limite vero di sviluppo potrebbe essere la carenza, in Italia, di banda ultralarga analizzato nella prima inchiesta di #ItaliaDigitale – ma questi gigabyte o terabyte di informazioni saranno al servizio delle persone che la vivono. E, non dimentichiamolo, degli oggetti. In un famoso esperimento condotto a Seattle da Carlo Ratti, direttore del Mit Senseable City Laboratory oltre che dell’Mit Italy Program, grazie a dei volontari vennero tracciati tutti gli spostamenti dei rifiuti: alcuni di questi girarono per settimane in lungo e in largo negli Stati Uniti, peggio di Jack Kerouac in On the road. Altri, come le bottiglie di plastica dell’acqua minerale, rimasero a vita nelle discariche intorno alla città (uno dei partecipanti all’esperimento, da allora in poi, smise di acquistare bottiglie in pet...).
La condivisione degli alloggi
Un altro esempio di come la sharing economy porti con sé la capacità di superare le barriere fisiche delle città viene da Airbnb, la piattaforma californiana di condivisione degli appartamenti: l’Italia è il terzo Paese per Airbnb se misurato in termini di appartamenti condivisi (180 mila, di cui 13 mila solo a Milano). L’Expo, da questo punto di vista, è stato un esperimento sociale molto interessante visto che è proprio grazie all’home sharing che l’offerta è potuta crescere seguendo la domanda: durante il periodo sono state 400 mila le persone che hanno soggiornato a Milano e dintorni con Airbnb. «Quando la società sbarcò in Italia – ricorda il country manager, Matteo Stifanelli – nessuno pensava a un tale successo: l’utilizzo della carta di credito per gli acquisti è ancora oggi basso se confrontato con gli altri Paesi e gli acquisti online latitano. Probabilmente ha avuto un ruolo il fatto che siamo il Paese che investe di più nel mattone e molti sono proprietari».
Un recente paper sulla smart future mobility del Mit mostra che l’intera domanda di una città come Singapore – considerata un test vivente di smart city – potrebbe essere soddisfatta con il 30% dei veicoli attualmente presenti. Più in generale le automobili cittadine restano parcheggiate per il 95% della propria vita (le nostre vetture ne sono la prova empirica), una percentuale che le rende il candidato ideale dell’economia della condivisione.
Non solo car sharing
Tuttavia è importante smontare il malinteso che vede sovrapposti i concetti di car sharing e smart city: la mobilità è solo uno dei settori che promettono un cambiamento radicale, anche se per ovvi motivi è più visibile degli altri e si presta, dunque, ad essere raccontato con esperienze e numeri. Secondo il rapporto di Credit Suisse sulla «sharing economy» quasi la metà del Pil mondiale (44%) è composto da settori con rilevanti attività di condivisione. Tra questi il commercio (15% del totale), i servizi finanziari (6%) e quelli assicurativi (4%).
A Milano, città dove il fenomeno del car sharing è esploso con 2.300 auto e 340 mila account accesi, 12 iscritti ogni cento avrebbero già deciso – i dati sono stati raccolti dagli uffici di customer satisfaction degli operatori – di abbandonare la prima o seconda auto privata, mentre altri 8 starebbero pensando di farlo. Dunque, ecco un primo risultato concreto: in prospettiva potrebbe ridursi la spoon river di automobili parcheggiate che sono diventate, a causa del numero, una nuova barriera cittadina. Se poi passiamo dal car sharing al ride sharing (cioè al passaggio condiviso in stile BlaBlaCar dove diverse persone che devono fare lo stesso tragitto da A e B decidono di farlo con un solo mezzo) l’impatto si ha su uno dei maggiori problemi delle città moderne: l’inquinamento. Sembra un gioco di numeri ma con una serie infinita di codici binari 010101 si possono ridurre la C02 e le polveri sottili. In un altro esperimento sempre dello staff di Ratti sulla municipalità di Manhattan sono state analizzate oltre 170 milioni di corse dei 13 mila taxi registrati (la giornata tipo prevede 400 mila viaggi). I taxi sono stati seguiti tramite Gps come si fa con i rinoceronti nella savana e il risultato che è emerso è chiaro: se i clienti che si sono effettivamente mossi avessero deciso di condividere le corse con un minimo disagio personale si sarebbe potuto ridurre il numero di viaggi del 40%. Il che vuole dire: 40 % in meno di tassametro per i clienti, 40% di riduzione dell’inquinamento e 40% di traffico da taxi.
Potenza dello smartphone
Il collettore di questa trasformazioni – inutile dirlo – è lo smartphone. E così i servizi di condivisione hanno avuto un grande successo nelle città italiane come è dimostrato dal rapporto tra utenti attivi di car sharing e popolazione milanese, più alto di quello misurato in città d’avanguardia come Londra e Berlino. La propensione degli italiani all’uso dello smartphone (secondo i dati Agcom ci sono 90 milioni di sim attive e meno del 10% di queste è usato solo per il traffico voce) è un fattore importante di abilitazione della città intelligente. Un’altra conferma viene dalla diffusione di app in cui è l’utente attivo a contribuire al miglioramento del servizio. Un esempio è Moovit, applicazione israeliana per il trasporto pubblico molto diffusa negli Usa, in Francia e in Italia, in cui le persone danno dei feedback in tempo reale sul mezzo pubblico. Per ora il vantaggio deriva dal sapere in diretta se la linea che ci apprestiamo a prendere ha dei problemi sul percorso. Ma nella città intelligente integrata si può immaginare che lo stesso gestore del servizio possa prevedere dei percorsi alternativi.
«Milano in particolare – giudica Ratti – è una delle città che ha fatto da pioniere in Europa sulla mobilità e si sta trasformando velocemente. Ma non bisogna pensare che ci sia sempre bisogno di una regia complessiva, vedi per esempio Uber. A San Francisco il 50% dei viaggi viene fatto con il servizio Uber Pool in cui si condivide il mezzo. Peraltro questo servizio è nato dopo che Uber ha osservato il nostro studio del Mit sui taxi e ci ha chiesto di lavorarci». Secondo Ratti, comunque, siamo in una fase di transizione. «Il car sharing e il ride sharing saranno ulteriormente trasformati dalle automobili che si guidano da sole: con quelle Milano potrebbe raggiungere un altro ordine di grandezza». Per ora serve un po’ di immaginazione per mettere tutto insieme e fare di questo minestrone la città intelligente. Ma una cosa è certa: su questo treno l’Italia è salita. Ora non bisogna scendere.