il Giornale, 22 novembre 2015
«Le rivoluzioni si fanno a colpi di gossip». Parola di Roberto D’Agostino
Sulla porta d’ingresso dell’appartamento-ufficio-museo di Roberto D’Agostino c’è un quadretto con un piccolo disegno: una casa dentro la quale si infila, attirata da sacchetti di zucchero e vasetti di miele, una fila di formichine. Siamo noi. L’appartamento-ufficio-museo di Roberto D’Agostino – all’ultimo piano di una palazzina sul lungotevere che di fronte ha le Sacre stanze del Vaticano, dietro le aule grigie della politica – è un’enorme ragnatela in cui rimangono invischiati frammenti di notizie, veleni, voci, scoop, spifferi, indiscrezioni, gossip, pettegolezzi...
«I pettegolezzi sono le notizie che gli altri non hanno». Il ragno – nome in codice Dagospia, nome proprio Roberto D’Agostino, una vita a farsi i fatti suoi e a sbucciare le vite degli altri – sta rintanato su un meraviglioso divanetto-pop di Gaetano Pesce, sotto due grandi fotografie di Joel Peter Witkin. Beve tazze di tisana ai frutti di bosco e, con una calma irreale rispetto alla velocità con cui si rincorrono sul suo sito le notizie che gli altri non hanno, mi parla dell’essenza del «pettegolezzo». Che lui ha elevato ad arte giornalistica e che secondo i filosofi è nato insieme all’uomo.
Come si dice: con Adamo ed Eva...
«No, coi loro figli. Finché erano solo loro due, Adamo ed Eva di cosa spettegolavano? È quando si è almeno in tre che la società, grazie al racconto della vita degli altri, ha un fondamento».
Quindi è vero: il pettegolezzo è all’origine del mondo?
«Be’, si potrebbe cominciare così: la vita si sconta spiando. I fatti degli altri, naturalmente. I rumors sono il normale rumore di fondo della civiltà, un rito sociale per raccontare le piccole storie, senza cui non ci sarebbe forse oggi la Storia. Rivoluzioni sono cominciate per un’indiscrezione detta fuori posto, battaglie sono state perdute perché qualcuno aveva litigato con la moglie. I pettegolezzi invecchiando diventano miti celiava Stanisaw Lec. Oggi noi parliamo di miti, epopee, leggende, storie. Ma all’origine era tutto un pettegolezzo».
Anche la Storia?
«Narrant dicevano i latini: e giù un mare di maldicenze, genialmente reinventate e messe in forma, contro imperatori e imperatrici. Tacito raccontava di cene e feste, rivelava le abitudini di vita e i modi di comportarsi degli uomini famosi dei suoi tempi. Oggi lo consideriamo uno degli storici più grandi dell’antichità, ma nella sua epoca era un ficcanaso. Bisogna dunque riconoscere che l’arte della diceria non è un genere letterario, ma la letteratura un settore molto fortunato del gossip. Da mille portinaie nasce un Proust, non viceversa».
Anche tu sei un gossipparo.
«Certo. Se dicono che il mio è un sito di informazione mi preoccupo, se dicono che è di gossip sono tranquillo. La gente legge il gossip, mica l’Ansa. La stampa inchiavardata dai lucchetti dei poteri economici ha sempre amato mettere in scena quella divertita propensione a liquidare uno strumento di potere, un canale d’informazione, una tecnica della vita pubblica al sottorango di maldicenza».
Diventeremo tutti gossippari?
«Lo siamo già. Da un pezzo. Il primo giornale ad avere una rubrica di pettegolezzi fu il New York Herald nel 1840. Poi con la società dello spettacolo inventata a Hollywood le colonnine in cui si spifferavano i segreti della città sono diventate pagine intere, e non ci si è più fermati. Oggi chi faceva il giornalista di costume non c’è più, perché siamo tutti giornalisti di costume».
Ci sono anche pagine serie di giornali serissimi che...
«Che hanno sempre un fogliettone a pagina 2 o 3, cioè le più importanti, con l’occhiello il retroscena: un pezzo che conta più dell’articolo di cronaca che sta sopra... E anche se ciò che si racconta lì dentro è solo verosimile, per i lettori diventa vero. Siamo tutti retroscenisti ormai. Da Camilla Cederna a Minzolini, cos’erano?».
Retroscenisti.
«Appunto. E i giornali che ieri avevano in pagina le rivelazioni di Raffaele Cutolo sul delitto Moro, che forse sono verità che cambieranno la storia d’Italia o forse solo voci che girano nelle carceri, o i giornali che fino all’altro ieri pubblicavano un pezzo al giorno sull’assassinio di Pasolini, tra scandali e pettegolezzi, cosa sono?».
Gossippari.
«Massì: Cose da serve, sentenzierebbe un umanista ferito nel cuore. La finestra sul porcile, titolerebbe un moralista indispettito da questa Italia da pianerottolo. Ma se una notizia nasce magari da un nonnulla (non nasce mai dal nulla) non esistono altresì giornalisti pettegoli: esistono giornalisti informati e non smentiti. Con il paradosso che ormai non c’è più l’angolo del gossip perché tutte le storie sono diventate gossip».
Tutto?
«La riforma sanitaria americana è una cosa serissima, che però, quando la voleva fare quello strappamutande di Bill Clinton, fu fermata facendo scoppiare lo scandalo Lewinsky. Le elezioni presidenziali in Francia sono una cosa serissima, ma quando si capì che Strauss-Kahn si candidava contro Sarkozy lo si è sputtanato usando le sue debolezze sessuali, che tutti conoscevano da tempo. E sul sesso, poi, cadono tutti, dai tradimenti di Hollande al bungabunga di Berlusconi, da Lady Diana fino agli alti prelati in Vaticano. Si fa finta di niente, poi quando serve si tira fuori il dossier, l’affaire, il pettegolezzo...».
Tutti sono interessati ai pettegolezzi su tutti.
«Soprattutto su chi detiene un potere pubblico, dallo spettacolo al calcio, dalla politica alla finanza. Le cene eleganti sono state puro veleno per Berlusconi premier perché lo si poteva attaccare o ricattare a piacimento, mentre quelle di Gianni Agnelli, che si è ben guardato di fare il politico visto che aveva chi lo faceva per conto suo a Roma, non hanno mai fatto sollevare un sopracciglio a nessuno. E la gente comune ragiona allo stesso modo: gli interessa con chi scopa Renzi e Elkann e Salvini, mica chi bacia Ambra».
I divi non interessano più?
«Ma non ci sono più i divi. Un tempo facevano notizia Sophia Loren e Carlo Ponti, Mastroianni e Anna Magnani. Oggi chi la fa? Bisio? La De Filippi? A colpi di social network, i divi ormai sono la gente comune. Io sono la mia fiction, diceva quel tale. I 15 minuti di Andy Warhol sono diventati 150 anni. Oggi i personaggi dello spettacolo, non solo Morandi, hanno un addetto stampa che gli cura il profilo su Facebook: sono loro stessi che alimentano il pettegolezzo postando foto e dichiarazioni. Ma se si afferma l’auto-gossip, allora significa che è morto il gossip».
Tranne Dagospia.
«Ammettiamolo: in un Paese serio Dagospia non esisterebbe. È più letto il mio sito, che è fatto da quattro persone, del Corriere della Sera, dove fino a ieri lavoravano 400 giornalisti. Troppa informazione uguale nessuna informazione. Non bisogna riempire le pagine di notizie, bisogna scegliere di dare quelle giuste».
Che è la tua forza.
«Semmai è la debolezza degli altri. I giornali vogliono sempre indicarti la via, col ditino alzato dicono al lettore che è un cretino perché non la pensa come loro, e in questa logica ideologicamente insopportabile, allontanano il lettore... Io parlo male di tutti, semino zizzania tra i tromboni d’Italia e magari sbuca fuori qualcosa di divertente. Ma poi: con un computer in tasca chiamato cellulare, che senso ha un giornale con le notizie del giorno prima? Sono già vecchie le mie di oggi... Anzi, fammi andare. Che devo dare ’na botta al sito».