Libero, 22 novembre 2015
Che noia il concerto di Bob Dylan a Bologna
Si possono seviziare un po’ le leggende? Si possono sporcare le icone? È consentito dire che nel 2015 un concerto di Bob Dylan, di anni 74, l’ ex manifesto del cantautorato anni ’60, ex simbolo della protesta giovanile, monumento un po’ bolso della poesia in musica, folk singer della pace – eccetera eccetera… – è una leggerissima presa per i fondelli di chi lo ha amato e ne ha consumato, nei decenni, i vinili in 33 giri? Lo si può fare senza essere tacciati di essere di malafede ma, piuttosto, sentendosi un po’ traditi dall’ artista che ha influenzato un’ intera generazione di cantanti, nel mondo e anche in Italia? Noi, da fan dylaniani e un po’ dylaniati, ci sentiamo in diritto di farlo, soprattutto quando si sborsano tra i 100 e 145 euro (più prevendita) per il biglietto, sognando una serata da leggenda.
Dopo aver assistito al suo primo concerto italiano, non possiamo esimerci dal raccontare quello che abbiamo visto e sentito e, soprattutto, quel che “non” abbiamo né visto né sentito durante l’ oretta e mezzo scarsa dello show, ennesima replica del celebrato Never Ending Tour che il bardo di Duluth porta avanti da un ventennio.
L’ uomo, d’ altronde, è un artista enorme, ma anche il re delle contraddizioni artistiche, umane e religiose: il poeta della pace, difatti, ha subìto svariati processi per risse con mogli e vicini di casa a Los Angeles, e ha cambiato più di una volta le sue scelte di fede, alternando attimi di rigido integralismo quando era seguace del movimento dei “cristiani rinati” (ahi, ahi...) ad altri nei quali rinnegò tutto. Eppure negli Usa un’ influente class-action ebraica sta premendo per assegnargli addirittura il Nobel per la Pace, dopo avergli fatto avere, qualche anno fa, il Pulitzer.
In un teatro Manzoni bolognese pieno di body-guard, Mr.
Tambourine ha aperto il breve giro di concerti che sta tenendo in questi giorni in Italia (ieri e oggi è al Teatro degli Arcimboldi di Milano). Show tutti uguali, repliche di cose già viste e sentite.
Detto del costo esorbitante dei biglietti, non si può sottacere la freddezza, la poca empatia che sprizza Dylan. In scena si presenta con un cappellaccio bianco in testa e un abito western, senza neppure salutare, attaccando le prime due canzoni: Things have changed, brano che gli valse nel 2000 l’ Oscar, e la bella She belong to me. Tra l’ armonica e il piano, tra citazioni western e rock-blues, non tocca neppure la chitarra e sceglie un’ impostazione da crooner visto che il suo ultimo disco è dedicato a Frank Sinatra. La voce è roca, ma calda. Dopo appena 9 canzoni, l’ ultima è Tangled up in blue, hit del 1975, Dylan farfuglia: «Grazie, grazie, ci vediamo dopo la pausa». La gente, in sala, resta un po’ basita. Lui si rifugia nel camerino dove tutto è nero: tende, divano e asciugamani.
L’ attesa è infinita: 20 minuti. Al rientro, Dylan pesca altri 9 veloci brani del passato più recente, puntando sugli album Tempest e Shadows in the night. C’ è spazio per l’ inattesa Autumn Leaves, cover di Le foglie morte prima degli stiracchiati bis: Love sick e una bizzarra e irriconoscibile Blowind in the wind, unica hit concessa al popolo adorante. Di altri classici – Mr. Tambourine Man o Knocking On Heaven’ s Door i più acclamati – neppure l’ ombra. Chi ha pagato 150 euro, se proprio vuole, può sentirseli solo in cd.
Il rispetto verso il pubblico di questo ex totem di un’ ideale ormai morto e sepolto, è già in riserva: Dylan finisce qui, dopo un’ oretta e mezzo scarsa di show, con venti canzoni interpretate con calore ma che sono pur sempre la metà, in termini numerici, delle 40 che offre il suo coetaneo Paul McCartney nei concerti. Il sipario si chiude con una standing ovation da parte dei fan più incalliti e parecchie perplessità di chi si aspettava una sera diversa. E che rimpiange certamente di aver speso un mezza fortuna per assistere a un mezzo concerto.