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 2015  novembre 22 Domenica calendario

La guerra all’Isis può farci guadagnare in Borsa

La scorsa settimana i mercati non hanno scontato effetti negativi della strage di Parigi e si sono comportati scontando possibili esiti positivi espansivi. I commentatori hanno enfatizzato la sospensione del rigore nell’Eurozona per finanziare operazioni militari e di sicurezza interna, il fatto che la convergenza russa con l’Occidente sul fronte del “Siraq” si trasformi in allentamento delle sanzioni e quindi in riapertura di quel mercato on beneficio sia per Mosca sia per gli europei. Per altro Mosca esibisce comportamenti collaborativi concreti per la soluzione del caso ucraino proprio per far finire un isolamento ad alto costo economico.
A ciò si aggiunge che la politica monetaria in America ed Eurozona ha un nuovo motivo di priorità della sicurezza per mantenere posizioni espansive, creando ottimismo nel mercato. Amplificato dal fatto, poco commentato, che lunedì scorso, alla riapertura dei mercati finanziari dopo la strage di venerdì 13, sono intervenute “manine” generose per mantenere positivi i corsi – e minima la volatilità – che poi hanno smesso di farlo presto perché il mercato si è tranquilizzato. La sensazione ottimistica era basata sull’osservazione di un pronto intervento “fiduciante”. Alcuni sono rimasti sorpresi dal fatto che il mercato non abbia reagito alle parole di Hollande «siamo in guerra» e a quella del premier francese Valls «che non si possono escludere colpi condotti con armi batteriologiche». Un collega americano mi ha chiesto se, dopo decenni di debellicizzazione della società europea sia in corso una ribellicizzazione. Un altro mi ha chiesto un parere su come mai nel 1990 l’attesa della prima guerra del Golfo creò una recessione nel mercato internazionale e l’attesa di quella dichiarata da Parigi, invece, sta generando espansione: c’è un effetto Pearl Harbour in Europa? La grande depressione americana degli anni ’30 finì per la svolta espansiva e mobilitante data dall’entrata in guerra nel 1941.
In altri scambi con think tank, nei giorni scorsi, è emerso il concetto di “guerra utile”. Mia posizione: calma, il mercato in realtà non ha ancora deciso un orientamento e le condizioni di difesa della fiducia non sono così semplici. Se, infatti, il Califfato riuscisse a portare una sequenza di colpi a tamburo battente, ciascuno con impatto massivo, l’incertezza aumenterebbe riducendo i consumi e gli investimenti. Se, poi, infilasse un colpo batteriologico la crisi di fiducia sarebbe più difficile da gestire. D’altro lato, l’unico modo per prevenire tali rischi destabilizzanti è quello di eliminare il problema alla fonte, cioè distruggere il nemico. Tale soluzione, ed è una sorpresa, appare dotata di consenso: non si vede una mobilitazione pacifista contro i bombardamenti, manco tanto selettivi, di Raqqa o una condanna morale di Hollande perché, oltre a usare la parola “guerra”, ha anche aggiunto “vendetta”. Pare che la percezione sia quella di una Pearl Harbour europea caricata di una forte caratterizzazione del nemico come indegno e non meritevole di pietà. Gli eventi di Parigi hanno creato un ambiente di “guerra giusta” ed è un evento notevole per l’Europa. Ma da questa considerazione di potenziale alla generazione di una guerra veramente fattibile e utile c’è molta distanza se l’utilità è definita come raggiungimento della sicurezza eliminando la fonte del pericolo. Il nemico, infatti, opera in un’area che va dall’Asia centrale all’Africa settentrionale e può riorganizzarsi in altri luoghi, presidiati da affiliati, qualora fosse sconfitto nel “Siraq”. L’obiettivo di bonificare tutta questa area e presidiarla implica una coalizione ampia di nazioni ciascuna disponibile a contributi militari ed economici importanti con l’ingaggio di governi islamici convergenti. Se la guerra viene attivata senza tale obiettivo, allora il pericolo di colpi destabilizzanti resterà latente e prima o poi verrà scontato dal mercato in negativo.
Pertanto, dopo la prima settimana di reazione orgogliosa all’attacco, d’ora in poi bisognerà confrontarsi con una guerra che richiede coalizione, risorse e ingaggi molto più ampi e duraturi di quelli finora immaginati. Da un lato, il governo italiano ha colto questo punto comunicando che bisogna ragionare con la testa e non con la pancia. Dall’altro, ha sbagliato pericolosamente facendo intendere che la razionalità implica un non fare o fare poco mentre la Paris Harbour impone la partecipazione attiva ad un’alleanza con formula di guerra e bonifica totale del Califfato.