Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 22 Domenica calendario

La strage di Piazza Fontana e la corsa di Mazzola in ospedale. Era il 12 dicembre 1969

Enrico Pizzamiglio ha dodici anni, frequenta la scuola media, tifa per l’Inter e il suo idolo si chiama Sandro Mazzola. Non pensa ad altro che al calcio e a come diventare un campione. Perché lo diventerà, un campione, i suoi compagni di giochi glielo dicono sempre che è bravissimo, dribbla, tira e segna proprio come il Baffo. Oggi, però, non può fare la solita partitella con gli amici: c’è molto freddo, è quasi inverno e viene buio presto, e poi con sua sorella Patrizia deve prendere il tram e andare in banca a pagare le bollette per conto dei genitori che gestiscono un’edicola e non possono muoversi. Sono passate da poco le quattro e mezzo di pomeriggio quando i due ragazzi arrivano davanti alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana a Milano. È il 12 dicembre 1969. Entrano, si guardano attorno. Ci sono altre persone in quell’enorme sala, e c’è un grande tavolo al centro. Finalmente Patrizia trova lo sportello al quale rivolgersi e si avvia. Enrico resta qualche passo più indietro, vicino al tavolo. Le voci e il chiacchiericcio, d’improvviso, vengono interrotti da un boato tremendo. E, subito dopo, urla, pianti, grida... L’inferno. Macerie ovunque, muri crollati, puzza di bruciato, lamenti. Il grande salone si è trasformato in un campo di guerra. A provocare quel disastro è stata una bomba che, tanti anni più tardi, e dopo infiniti processi, si scoprirà essere stata messa da terroristi neofascisti coperti dai soliti servizi segreti deviati dello Stato. Di fatto, con i 17 morti e gli 88 feriti della strage di Piazza Fontana si apre la stagione della cosiddetta «strategia della tensione».
Enrico è ancora vivo quando arrivano le prime ambulanze. Lo trasportano immediatamente al vicino Policlinico. Lo operano, gli riducono le fratture, ma per la gamba sinistra non c’è nulla da fare: gliela amputano. La sorella Patrizia, ferita anche lei, è in un altro ospedale: al Niguarda. A vegliare su Enrico c’è la nonna materna, una vecchietta che intreccia le dita e prega perché al suo bambino venga fatta la grazia. La mattina di sabato tre ragazzi, con la sciarpa dell’Inter al collo, si presentano ai medici, vogliono vedere il loro amico, Enrico. Non è possibile, sta molto male. Piangono davanti alla stanza assieme alla nonna e, incrociando un giornalista del Corriere della Sera, gli raccontano che Enrico ha un sogno: diventare calciatore. «Sandro Mazzola è il suo eroe» dicono. Il cronista riporta tutto sul giornale che va in edicola la domenica mattina. È il giorno delle partite di campionato, ma dopo quello è successo non c’è voglia di andare allo stadio. A San Siro è in programma Inter-Bari. Fin dalle prime ore del giorno Milano è avvolta da una fitta nebbia, come se persino la natura volesse nascondere l’orrore. Nelle strade, nei caffè, nei circoli, nei salotti delle case si parla soltanto della strage. Ancora non si conosce di chi sia la mano che ha portato la valigetta dentro cui era sistemata la bomba: si indaga negli ambienti anarchici e cominciano i primi depistaggi.
Negli spogliatoi di San Siro l’Inter e il Bari si preparano per entrare in campo, ma l’arbitro avverte che probabilmente non si giocherà. Non si vede nulla, la nebbia si è mangiata il campo. Passano pochi minuti e la notizia diventa ufficiale: la partita viene sospesa, si disputerà il giorno successivo, lunedì. L’allenatore dell’Inter è Heriberto Herrera, un duro. Ordina ai suoi ragazzi di restare in maglietta e calzoncini: si fa allenamento. «Ma come, mister?» si lamenta qualcuno. «Zitti, non si discute» replica Heriberto. I giocatori, sotto gli occhi attenti del presidente Ivanoe Fraizzoli, corrono, scattano e sudano per un’ora abbondante. Poi tutti s’infilano sotto la doccia. Nel piazzale davanti agli spogliatoi il pullman che deve riportare il gruppo nel ritiro di Appiano Gentile avvia il motore. Mazzola si avvicina a Heriberto e gli chiede un permesso: «Vengo su più tardi». «Non se ne parla» ordina l’allenatore. Allora Mazzola va da Fraizzoli e gli spiega il motivo di quella richiesta. Il presidente comprende e dà l’ok. A Mazzola si accoda Giacinto Facchetti. Con una macchina i due, da San Siro, raggiungono il Policlinico. Mazzola ha letto, sul Corriere della Sera, la storia del piccolo Enrico, ne è rimasto colpito, vuole fare qualcosa. Quando lui e Facchetti arrivano all’ospedale vengono accolti da alcuni medici che sono già stati avvertiti. Li accompagnano nella stanza di Enrico. Il bambino sgrana gli occhi. «Hai visto chi è venuto a trovarti? Il signor Mazzola e il signor Facchetti» gli dice la nonna. Enrico accenna un sorriso, ma non riesce a godere di quella visita: poche ore prima i dottori gli hanno comunicato che gli è stata amputata la gamba sinistra. Mazzola gli appoggia una mano sul braccio, Facchetti ha le lacrime agli occhi. Restano pochi minuti nella stanza, poi escono salutando Enrico e dandogli appuntamento a San Siro. Lui fa sì con la testa: ce la farà, allo stadio ci andrà ancora. Mazzola sarà sempre il suo eroe.
Lunedì 15 dicembre Milano saluta le sue vittime. È un momento di altissimo dolore collettivo. Da una finestra del quarto piano della questura di Milano vola misteriosamente il corpo di Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico ingiustamente sospettato di aver a che fare con la strage di Piazza Fontana. Nel pomeriggio l’Inter batte il Bari nel recupero ed è seconda in classifica. La nonna di Enrico si china sul letto del nipote e, sentendolo lamentarsi, con un filo di voce gli sussurra: «Tranquillo, oggi avete vinto».