CorrierEconomia, 23 novembre 2015
Uber cambia manager e vuole diventare come Amazon
È «il» manager. Quello capace di intavolare e portare avanti trattative per superare gli ostacoli legali con associazioni e governi. Lo sarà ancora per poco: Mark MacGann, da un anno e mezzo uomo-chiave di Uber in Europa, Medio Oriente e Africa, ha appena annunciato le dimissioni, che saranno effettive dalla fine di gennaio. Passerà dall’altra parte della barricata: lavorerà per le società di v enture capitalist europee. Quelle, insomma, dalle quali dipende Uber: con una valutazione da 51 miliardi che ne fa la società con il valore più alto del mondo e nessuna intenzione (almeno non nell’immediato) di varcare le porte di Wall Street la startup dipende dai capitali messi a disposizione dai round di finanziamento. L’ultimo, in arrivo, sarà di 1 miliardo e farà salire ancora la valutazione.
Valori e regole
Ma Uber dipende anche dalle regolamentazioni che continuano a rallentarne, se non a bloccarne, lo sviluppo. Con un modello di business (quello della sharing economy ) messo in causa nel mondo intero, la società continua ad incorrere in problemi con chi la accusa di concorrenza sleale (taxisti) e chi constata che una legge per inquadrare i servizi che offre ancora non c’è (enti pubblici). Il compito di MacGann era quello di fronteggiarli e risolverli. In Europa, una delle sue aree di competenza, lascerà una situazione non semplice. In Francia c’è una battaglia giudiziaria in corso con due dei suoi top manager che rischiano la prigione. In Belgio i suoi servizi low cost sono stati bloccati. In Gran Bretagna si riflette su nuove regole che possano intralciarne i servizi.
È il paradosso di Uber. Lanciata nel 2009 da Travis Kalanick, prima fra le startup più promettenti del mondo, conosciuta da tutti e usata da molti, ormai quasi uno status symbol. In sei anni ha assunto 4 mila dipendenti, è sbarcata in 342 città di 60 paesi, ha conquistato un esercito di 327 mila autisti freelance solo negli Usa.
Ha sviluppato un modello di business (intasca una percentuale del 20% sui servizi che offre) semplice e sicuro: nelle previsioni che ha esposto agli investitori c’è il traguardo dei 10 miliardi di dollari di transazioni entro la fine dell’anno, cioè 2 miliardi di entrate per la società. Ottimi numeri che, pare, Uber si aspetti già di raddoppiare entro la fine del 2016.
Questa è la punta dell’iceberg. Sotto ci sono acque turbolente, visto che la società continua a dribblare proteste, leggi e processi. A volte li perde, come in Belgio. A volte li perde ma prova a reinventare i prodotti, come in Italia dove il suo UberPop è stato bloccato l’estate scorsa ma il nuovo country manager Carlo Tursi vuole provare a rilanciare in versione rivista e corretta.
A proposito di strategie da ripensare: quella più interessante resta opera di MacGann, che per difendere la società dalle accuse ha deciso di proporre Uber come «compagnia tech» e non «compagnia di taxi». Un dato di fatto? Certo, ma questa semplice definizione le permette di portare avanti la linea che la vuole diversa dalle società di gestione di taxi, e quindi non soggetta alle stesse regole. Forse basterebbe questa definizione a far crollare le accuse di concorrenza sleale che le muovono i taxisti. Tanto più che la società sta sviluppando anche nuovi servizi di consegna.
Il nodo delle tasse
Poi c’è la questione della tasse. Che Uber riduce al minimo grazie ad un complesso sistema di società sussidiarie. Un sistema rischioso, viste le sempre più frequenti richieste di trasparenza e gli attacchi ad altri big che usano sistemi simili. Insomma, il modello di Uber è in bilico su tutti i fronti. Lo è da sempre, e questo non ha impedito alla società di crescere a dismisura. Né ha impedito al modello stesso di prendere piede e di tradursi in una miriade di servizi lanciati da altre società. Tanti, tantissimi spiegano o pubblicizzano i loro servizi definendosi come «l’Uber degli elicotteri» o «delle lavanderie a gettoni». Tra l’altro, c’è anche chi ha iniziato ad utilizzare il nome della società come un verbo (successe con Google). Tutto questo, però, non può essere portato a difesa davanti ad un tribunale. Né essere l’argomento risolutivo per il governo italiano, al quale il numero 2 David Plouffe ha rivolto un appello dalle pagine de Il Foglio per chiedere di modernizzare il quadro normativo in materia di trasporto in tempo per sfruttare le opportunità offerte dal prossimo Giubileo.