D - la Repubblica, 21 novembre 2015
Non fate le piagnone di fronte a Tina Brown
Tina Brown non sopporta le piagnone. Le donne che pattugliano la Rete per scovare frasi sessiste sono «noiose, banalizzano l’essenza più vera del femminismo». Quelle che si sentono minacciate dai troll di Internet dovrebbero «provare a immaginare cosa significa essere una donna catturata dall’Isis. Lì vieni stuprata e ammazzata: quella è una minaccia».
Picchietta sul tavolo i suoi occhiali tartarugati. Non è una fan di Carly Fiorina, la supermanager candidata alla nomination presidenziale in America per il Partito repubblicano, ma è rimasta ammirata quando lei ha messo al suo posto Donald Trump, che aveva chiesto come si potesse sopportare di votare per una «faccia come quella» (Fiorina ha risposto con freddezza: «Tutte le donne di questo Paese hanno sentito chiaramente quello che ha detto il signor Trump», limando otto punti al gradimento del miliardario populista). «Invece di arrabbiarsi e piagnucolare, genere tweet femminista-lamentoso, ha replicato con asprezza e lo ha messo al tappeto. Così mi piace».
Tina Brown è l’asprezza personificata: parlantina arguta, imperiosa, la franchezza di una donna che ha raggiunto un’età – 62 anni – e un livello di influenza tali da non aver più bisogno di tenere a freno la lingua. E devo confessare che è una che intimidisce, a intervistarla. Non perché non sia gentile, ma perché è la direttrice da cui ogni giornalista sogna di ricevere una telefonata, per teletrasportarsi Oltreoceano nel mondo radioso di Vanity Fair o del NewYorker, dei party per la cerimonia degli Oscar e dei salotti letterari, a scrivere pensose articolesse da diecimila parole in cambio di grassi compensi. Brown conosce tutti i trucchi, è la regina del mestiere. Anche se ha smesso di fare la direttrice due anni fa (nel settembre 2013 ha lasciato il Daily Beast, il sito di notizie da lei fondato nel 2008), quando perdo momentaneamente il filo dei miei pensieri e lei si appoggia sullo schienale fissandomi con un sorrisetto forzato, mentre aspetto che il mio cervello si sblocchi mi sento come se avessi deluso il Capo.
Cominciamo: è stato divertente come tutti ci immaginiamo, essere presa a trent’anni da Tatler (una rivista che aveva cominciato a dirigere quando ne aveva 25) e catapultata nel grande ufficio d’angolo con vista su New York City per dirigere Vanity Fair, impresa straordinaria all’epoca per una giovane donna inglese? «Oh, è stato fantastico», dice Tina. «Era euforizzante, mi pareva una cosa enorme: vivere a Manhattan, avere in mano una rivista patinata e dirigerla con ottimi risultati. Con Washington e Hollywood da esplorare, per di più. C’erano così tante possibilità».
Specialmente per una donna. Quando arrivò in America da Londra, nel 1983, rimase entusiasta vedendo la quantità di donne manager, magistrato, politiche. «Sentivo che l’Inghilterra era meno aperta a queste cose, anche se stava cambiando in fretta». Ora l’America lancia segnali contraddittori sulla parità fra i sessi: per una Hillary Clinton che corre per la Casa Bianca, c’è una sfilza di candidati repubblicani che fanno a gara a chi è più repressivo in materia di diritti riproduttivi. «È allucinante. Mi viene da dirgli: levatevi dalle scatole, che importa a voi? Perché questi uomini vogliono interferire con il corpo e le scelte delle donne?».
Trent’anni negli Stati Uniti hanno affinato la sua mise: indossa una versione più chic dei tailleur Pantalone che predilige Hillary, più tacchi a spillo altissimi e le sue caratteristiche perle. L’accento inglese resiste, ma usa alcune espressioni americane. Lasciare l’Inghilterra, dice, fu una liberazione. In America a nessuno importava delle sue origini (è nata a Maidenhead, nel Berkshire, figlia di un produttore cinematografico e dell’addetta stampa di Laurence Olivier) o di quale scuola avesse frequentato (fu espulsa da tre collegi per ribellioni varie). «In Europa la gente resta bloccata dov’è», mentre gli americani salgono e scendono, si spostano da una costa all’altra, divorziano, cambiano lavoro, sono mobili a livelli sfiancanti. Se fosse rimasta in Inghilterra, «magari avrei fatto altri due bambini e mi sarei trasferita nello Shropshire. O forse sarei diventata una produttrice di teatro» (subito dopo la laurea ha prodotto diversi lavori). Tutto ciò non le impedisce di vedere i difetti del suo paese adottivo. Tina Brown è la donna che ha portato le vendite di Vanity Fair da 200mila a 1,2 milioni di copie, che ha iniettato verve e modernità in un New Yorker un po’ spompato. Ma quando le dico che in The September Issue, un documentario sull’edizione americana di Vogue, il rapporto tra la direttrice Anna Wintour e la direttrice creativa Grace Coddington è un dialogo tra commercio e creatività, salta su immediatamente: «Il commercio vince sempre in America».
Il successo di critica è un concetto sconosciuto negli Stati Uniti: «Numeri, numeri, numeri, importano solo i numeri. Mentre in Gran Bretagna puoi ottenere grandi riconoscimenti se fai qualcosa di brillante, anche se magari non funziona. Si può essere originali, eccentrici. In America c’è un’omogeneità che a volte trovo pesante».
Come direttrice di Vanity Fair le viene attribuito il merito, di aver inventato la cultura delle celebrità: non ha l’impressione, oggi, di aver creato un mostro? «Mi fa ridere, perché lasciai Vanity nel 1992, poco dopo la copertina con Demi Moore incinta, e pensavo: “Me ne vado al New Yorker perché la cultura delle celebrità è al capolinea. Non voglio più fare questa roba”. E invece da quando me ne sono andata si è divorata tutto. È l’unica cultura che esiste. Donald Trump è Kim Kardashian senza quell’enorme... ci siamo capite». Trump, osserva, dimentica che i dibattiti presidenziali non sono un reality show: lui chiama i suoi avversari «concorrenti». Non durerà a lungo, dice, «perché non sa nulla, e questo alla gente alla fine non piace». Ma anche gli altri non sembrano migliori. Perciò alla fine lo scontro potrebbe essere fra Trump e Hillary, e «lei se lo mangerà a colazione».
È amica intima dei Clinton, è stata a casa loro, ha visto Hillary «scolarsi un drink tutto d’un fiato, girare coi pantaloni larghi e gli occhiali, è una donna che non si preoccupa di piacere agli uomini. Hillary non è una guerriera felice».
E quelli che definiscono Hillary una golden girl, che non riescono a immaginare di eleggere una donna di 68 anni? Joe Biden e Bernie Sanders sono più vecchi di lei, sottolinea la Brown. E comunque le donne (ne è fermamente convinta) sperimentano una vera e propria «impennata» quando si liberano finalmente degli obblighi familiari. «Io ero uguale: la ma vita è lavoro, bambini, lavoro, bambini, lavoro e poi marito. Appena i figli diventano grandi, invece della sindrome del nido vuoto senti d’avere un mucchio di tempo a disposizione: tornerò a fare questo, a gestire quello...».
Ora che i figli sono cresciuti (Isabel, 24 anni e George, 29), Tina e il marito, il giornalista inglese Sir Harold Evans, si ritrovano soli nella loro casa sulla spiaggia a Long Island, «che ci sembra grandissima e vuota». Ma l’età ha anche i suoi vantaggi. Devi «sforzarti il doppio per essere bella la metà» (e Brown, nonostante viva nell’Upper Eastside, non è una di quegli scheletrini dell’alta società tutti ritoccati ed emaciati), però il lato positivo è che l’aspetto fisico conta meno. «E non sono mai stata più felice, non me ne è mai importato così poco di come appaio. Sono così e mi sta bene. Penso che sia così anche per Hillary».
Tina Brown ammira enormemente le donne di potere che non manifestano vanità. La sua eroina è Angela Merkel: «È l’ultima persona a cui Anna Wintour rifarebbe il look per il tappeto rosso». Finora non è riuscita a incastrare la cancelliera tedesca per uno dei suoi vertici di Women in the World, che ha lanciato nel 2010 e che ora organizza sotto gli auspici della Tina Brown Live Media. Ma nell’incontro che si è tenuto nelle settimane scorse a Londra c’erano Nicola Sturgeon, Theresa May, Meryl Streep, la liberiana premio Nobel Leymah Gbowee.
Lo scopo di Women in the World, dice Tina Brown, è offrire alle giovani donne modelli migliori delle Kardashian – «Sono così materialiste, è orrendo» – e un palcoscenico dove raccontare storie che nessuno racconta, come quella delle ragazze che sono sfuggite all’Isis, delle profughe siriane o di una suora ugandese che ha salvato molte bambine dalle mani dell’Esercito di resistenza del Signore. Le ragazze della generazione di sua figlia «scoprono nelle loro esperienze un altro genere di coolness». Tina apprezza le donne attive, intraprendenti, ambiziose, non quelle che si trincerano nel vittimismo. Il politicamente corretto le dà ai nervi e la tolleranza del femminismo occidentale verso l’Islam conservatore e i regressi che ha portato per la condizione femminile la fa infuriare.
I raduni di Women in the World sembrano lontanissimi dal milieu newyorchese dove un tempo regnava suprema. La rivista Talk è stato il suo unico insuccesso professionale, ma nessuno se ne ricorda, mentre tutti rammentano la festa di inaugurazione della rivista a Liberty Island. «Tornammo in barca con Kate Moss, Liam Neeson ed Helen Mirren: una nave piena di persone incredibili, bellissime, e passammo davanti alle Torri Gemelle». Un anno dopo le torri erano sparite, e con loro l’ottimismo degli anni 90 e i proventi pubblicitari: tutto questo contribuì ad affondare Talk.
In un certo senso Women in the World è la classica iniziativa di Tina Brown: cavalca lo spirito del tempo, strizza l’occhio a una nuova ondata di rinascita del femminismo, fa girare la sua agenda per chiamare a raccolta star del cinema della politica, proprio come faceva nelle sue riviste. Una direttrice del circo col sorriso, come sempre.
C’è una famosa fotografia di Tina e del marito che a guardarla oggi sembra una parodia degli anni 80: si vede la coppia inondata di luce dorata e con dietro il grattacielo della Chrysler, vestiti – lui col cravattino, lei coi capelli cotonati – per una cena di gala. E intitolata The Editors (i direttori).
Quando si conobbero, Tina aveva solo 22 anni: era appena uscita da Oxford, ma era già famosa. Harold aveva 47 anni, era sposato con due figli e dirigeva il Sunday Times. «Dio santo, ero una bambina!», dice Tina. E se sua figlia... «Sarei scioccata. Ma ero una ventiduenne matura. Precoce».
Il suo tono diventa meno sbrigativo mentre sciorina la storia del loro incontro. «Era idolatria pura e semplice, nel senso che io, come giornalista, lo vedevo come il grandissimo direttore. Per me il Sunday Times era l’epitome assoluta della qualità, dell’energia, della spigliatezza, e del potere e dell’influenza della stampa...».
Lui era rimasto ammirato dalle cose che Tina aveva fatto per la New Statesman e l’aveva invitata nella sua redazione, ma era troppo impegnato per parlare con lei. «Stava lavorando con un sacco di uomini intorno e io me ne stavo lì in piedi pensando: “È qui che voglio lavorare”. Poi lui alzò lo sguardo su di me, e fu come... “Oh mio dio”. Non mi reggevo più sulle gambe». Fu lo stesso per lui? «Non voleva ammetterlo con se stesso perché era sposato, ma io sapevo che si era creato un legame». Si incontrarono come si deve solo mesi dopo, in America, «ed è stato allora che tutto si è messo in moto...». Un colpo di fulmine, tuttavia, ha le sue ricadute. «Per lui è stato difficile. Ci vollero tre o quattro anni, prima di poterci sposare e stare insieme. Ma è durato tutto questo tempo... più di trent’anni».
In effetti il loro matrimonio è sopravvissuto a due carriere parallele di altissimo livello e a due figli da allevare, con il maschio, George, che necessitava di particolari attenzioni per via della sindrome di Asperger, una forma di autismo. Occuparsi di una persona che ha difficoltà ad affrontare la vita è un contrappunto molto netto al mondo perfetto delle celebrità. «Assolutamente sì. Ma George è così straordinario che ti regala uno strato di empatia in più».
La sua cerchia di amicizie è piena di genitori con ragazzi d’oro, che vanno nelle migliori università e cominciano a lavorare alla Goldman Sachs. «E io sono fiera che George ora lavori tre giorni a settimana in una ong, che guidi l’automobile da solo, che stia diventando indipendente». Isabel, laureata a Harvard, ora lavora alla Vice News. «È dolcissima, coinvolge sempre George e so che per lui ci sarà sempre».
I genitori di Tina Brown si trasferirono a New York, in un appartamento attiguo, per aiutarla a badare ai bambini, ma il lavoro non finiva mai. Brown era famosa per essere un capo severo e volubile. «Sono esigente», dice senza rimorsi. «Ho parametri molto elevati e sono asfissiante: per cui sì, a volte può essere stressante lavorare per me». Ma i giornalisti la apprezzano, dice, perché tutto quello che vuole è migliorare le loro parole, e dà sempre una risposta rapida.
Se c’è una cosa che non sopporta è il «no lento», i direttori che si tengono un articolo nel cassetto per giorni, sottoponendo il giornalista a uno strazio prolungato. È severissima anche con certi direttori di oggi che non pagano i collaboratori. Dice che c’è stato un momento in cui «il marcio stava prendendo piede e i giornalisti avrebbero dovuto puntare i piedi. Non penso che si possa andare a dire alla gente: “Scrivi gratis per me”».
La leggenda la descrive come un vulcano, una che butta fuori a non finire idee che ci vogliono mesi per realizzare, senza badare a spese. «Riorganizzavo tutto quando arrivava qualcosa di meglio, ma l’idea che io sia una che abbatte tutto quello che trova è falsa». È indispettita da un recente attacco alla sua reputazione: si sostiene che a prescindere dal suo stile è costata ai datori di lavoro – Condé Nast, Miramax (comproprietaria di Talk) e Barry Diller (che le fece lanciare il Daily Beast) – 100 milioni di dollari. «Sono stata alla Condé Nast per 18 anni. Se fossi stata una direttrice del genere, non mi avrebbero licenziata?». Sottolinea che Vanity Fair, una reliquia senza valore quando arrivò lei, guadagnava 5 milioni all’anno nel momento in cui l’ha lasciata. Al New Yorker non ha mai fatto soldi, «perché è molto difficile con una rivista letteraria», ma ha portato 250mila lettori in più, ha cambiato la composizione demografica del suo pubblico e ha messo la rivista nelle condizioni, cinque anni dopo che se n’era andata, di chiudere il bilancio in attivo. Mentre Talk fu ucciso, praticamente sul nascere, dall’11 settembre.
E il Daily Beast? Molti l’hanno sbeffeggiata dicendo che non capiva il mondo dell’editoria online: giravano voci maliziose sul fatto che tutti gli articoli dovevano essere stampati, come nei media preistorici, per farli leggere a lei. «Quando me ne sono andata il Daily Beast aveva 20 milioni di visitatori unici e abbiamo vinto due volte il premio di sito dell’anno. Il Beast è stato un successo enorme. Faceva profitti? No, ma non è un caso unico nel mondo dell’editoria online».
Il Daily Beast «è stato la cosa più divertente che ho fatto dai tempi di Tatler». Le riviste patinate si muovono con una lentezza esasperante, il sito invece era veloce e agile. «Potevo mettermi seduta in un caffè col mio iPhone e assegnare sette articoli prima di colazione». Adorava pescare nella sua agenda di amici scrittori, «che collaboravano perché sapevano che sarebbe stata una cosa veloce e avrebbe avuto grande visibilità. Come quella volta che ho chiamato Bruce Riedel, un ex direttore della Cia, dopo un attacco con i droni, e lui mi ha mandato il pezzo in due ore. Ed era eccellente».
Mi viene da pensare che Tina Brown, drogata di informazione com’è, probabilmente è la direttrice di giornale migliore che molti giornalisti abbiamo mai avuto».
La sua vita è fondata sulle notizie. Lo è persino il suo matrimonio: il legame fra lei e Evans è basato «sul lavoro, sul giornalismo». Ma Evans ha 87 anni e quel divario fra loro (26 anni) adesso si fa sentire di più. Come tutte le donne felicemente sposate a un marito più anziano, sente che il tempo si sta esaurendo. Le sue energie sono intatte: Evans fa ancora 60 vasche al giorno, «scrive tre editoriali e due capitoli prima di colazione», intervista John Kerry, butta giù in un attimo 500 parole di prefazione per un libro, raramente rifiuta lavoro. Non si prefigura mai un futuro da sola? «È naturale preoccuparsene. Per esempio penso alla nostra casa sulla spiaggia e comincio a pensare: “Avrò voglia di starci da sola?”. È stato il nostro rifugio più felice, lo troverei forse troppo doloroso».
Nel frattempo, però, i due editor si godono le loro giornate lavorando nei rispettivi studi nella casa di Long Island, dove scrivono tutta la mattina (Tina Brown le sue memorie, Media Beast, in cui figurano anche le prime avventure dei Trump e dei Clinton), si incontrano per pranzo e poi si leggono e si correggono i testi a vicenda, come hanno sempre fatto. «È meraviglioso quando trovi l’anima gemella», dice, innamorata come quando i loro sguardi si incrociarono in redazione. «A qualcuno non succede mai».
(©The SundayTimes
Traduzione di Fabio Galimberti)