Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  novembre 21 Sabato calendario

L’America resta un grande paese, ma come impero è finito

Sta per finire una delle presidenze americane più curiose del dopoguerra. Ci eccitammo quando divenne presidente un nero (un Berlusconi ancora simpatico gaffeur, non il garbato vecchietto di oggi, lo definì, sorridendo, abbronzato), era colto, educato, perbene, nulla a che fare con i volgari predecessori puttanieri dem, da Kennedy a Clinton. Era chiaro che aveva preso sul serio il lavoro, voleva chiudere una stagione di guerre che i suoi predecessori avevano battezzato «giuste», indispensabili per esportare la democrazia. Pur avendo studiato ad Harvard, non aveva letto lo storico scozzese Niall Ferguson. Questi sostiene una teoria certificata dalla storia: quando un impero spende per gli interessi sul suo debito «complessivo» più delle spese militari, il suo destino è segnato.
Il cambio di segno ormai è avvenuto: l’America resta un grande paese, ma come impero è finito, i suoi figli non sono più disposti a morire, come avevano fatto, per noi, durante la seconda guerra mondiale, avendone in cambio riconoscenza e sudditanza per 70 anni. Ora siamo pari, doveroso rispetto, amicizia, ma nulla più. In tutt’altro senso, da quello inteso da Berlusconi, Obama era sì un uomo «abbronzato» ma, sotto la patina dell’abbronzatura, purtroppo non c’era nulla.
Anziché chiudere le guerre in corso, prendendosi in anticipo uno sconcio premio Nobel per la pace, ne aprì di nuove, cavalcandone altre con i politicamente idioti Cameron e Sarkozy/Hollande, sull’onda di un grande bluff mediatico: le primavere arabe, i tweet in luogo delle baionette. Dopo la Libia, l’Egitto (salvato grazie un sacrosanto colpo di stato militare), la Siria. Non aveva capito l’ovvio, il nemico non era Assad ma il Califfato, la Jihad, Hezbollah e simili. Mentre lui tracciava una «superabile linea rossa», Isis occupava parti di Siria e Iraq, milioni di profughi ci avrebbero destabilizzato, dando a Erdogan enormi poteri di ricatto. Improvvisamente è arrivato il cavaliere bianco-rosso Putin, lui ha dimostrato di non temere il Califfato, lo combatte sul serio, così i suoi avversari jihadisti che l’Occidente proteggeva. A lui si è appoggiato un Hollande disperato. Grazie presidente Putin, ci sta salvando, seppur umiliandoci politicamente.