La Stampa, 22 novembre 2015
Ma in Italia il congedo per i padri è ancora un sogno
Papà per un giorno, giusto il tempo di accompagnare mamma e pargolo a casa, un giro di acquisti dell’ultimo minuto e – solo per chi si è organizzato bene – anche un brindisi con i parenti. Poi subito al lavoro. Oggi in Italia il congedo di paternità obbligatorio, lanciato in forma sperimentale dalla legge Fornero e in scadenza entro la fine dell’anno, è poco più che simbolico: un solo giorno retribuito, con la possibilità di aggiungerne altri due facoltativi, da sottrarre però alla maternità. Anche se può sembrare difficile, la situazione dei papà italiani potrebbe addirittura peggiorare: se non si cambia con la legge di stabilità, già approvata con fiducia al Senato e ora all’esame della Camera, non ci sarà più nemmeno quello.
Il disegno di legge in discussione propone di introdurre un congedo di paternità obbligatorio di quindici giorni, da prendere nell’arco di trenta giorni dalla nascita del figlio e con un’indennità giornaliera a carico dell’Inps del cento per cento. Troppo o troppo poco? Dando una sbirciata a quel che succede nel resto del mondo, verrebbe da dire che siamo al minimo sindacale. Il confronto è impietoso non solo rispetto alla sempre citata Norvegia – dove un papà può deliziarsi tra pappe e coccole per 112 giorni – ma al mondo interno: tra i paesi che si distinguono per la durata del congedo riservato ai padri ci sono anche Islanda (90 giorni), Stati Uniti (84 giorni) e Svezia (70 giorni). A pesare sulla scelta di dedicarsi ai bimbi non sono tanto i cosiddetti fattori culturali – papà che non sanno nemmeno cambiare un pannolino se ne vedono ormai pochini -, ma soprattutto quelli economici. Prendiamo il congedo parentale, che dà a mamma e papà la possibilità di restare con i bimbi entro i primi sei anni per un massimo di 6 mesi, con il 30 per cento dello stipendio. Se in Italia dal 2009 al 2013 si è passati da poco più dell’otto al dodici per cento di padri che scelgono questa possibilità, in Svezia la percentuale è ben oltre il 90 per cento. La spiegazione è semplice: la retribuzione è piena.
Tra i sostenitori dell’introduzione del congedo parentale obbligatorio c’è anche il presidente dell’Inps Tito Boeri, che vede nel provvedimento anche l’occasione ideale per un passo avanti nella parità di genere sui luoghi di lavoro.
«I datori di lavoro sapranno d’ora in poi che assumere un uomo comporta gli stessi costi – ha commentato l’economista -. Con una conseguenza non banale: il provvedimento ridurrebbe le differenze tra uomini e donne nei “costi dei figli” che finiscono per gravare sulle imprese».
Non è tutto. Nel disegno di legge, su cui si deciderà probabilmente entro la fine dell’anno, ci sono altri due emendamenti: il primo per aumentare l’indennità per i congedi parentali dal 30 al 50 per cento della retribuzione per i redditi bassi, il secondo per introdurre una detrazione contributiva dell’80% del costo delle collaborazioni domestiche, cioè tate e baby sitter. Che se i nonni non ci sono, il papà lavora e la mamma pure, restano l’unica – e senza dubbio assai costosa – soluzione.