la Repubblica, 22 novembre 2015
L’ultima trovata degli artisti: trasformare in capolavoro anche il selfie
Perché la Venere di Milo ha quell’espressione malinconica? Perché essendo priva di braccia non può farsi un selfie. A differenza delle sue colleghe, statue greco- romane dei musei di tutto il mondo, che una virale e folle campagna fotografica lanciata sul web-giornale Reddit ha trasformato in allegre autoscattiste: basta piazzare la macchina in fondo al braccio di marmo, distraendo i guardiani, e clic, la posa selfie vien da sola. E il bello è che, direbbero i ragazzini, “ci sta”. Funziona. Come se non stessero aspettando altro da duemila anni. Il selfie sembra diventato il destino ultimo dell’arte, non solo occidentale. Il coreano Kim Dong-Kyu sta ridipingendo tutti i ritratti classici della pittura occidentale mettendo uno smartphone in mano ai protagonisti. Una statua in bronzo di un principe ottomano nell’atto di farsi un selfie è stata eretta nell’antica città turca di Amasya. Per l’ultima festa di Ganesh Chaturthi, in India, ha sfilato una statua del più simpatico degli dei, Ganapati dalla testa d’elefante, mentre si fa un selfie, anzi un groufie (il selfie di gruppo) con mamma Parvati e papà Shiva entusiasti. Altro che “peste visuale”, altro che “demenza di massa”, i selfie divertono la gente comune, e fanno impazzire invece gli artisti. Che se la sognano, un’estetica così fulmineamente popolare, che si mangiano le mani per non averla inventata loro, e allora la rincorrono, la imitano, cercano di cavalcarla in un impeto tardo-pop. «L’artselfie contiene semiotica esclusiva e risolve un mucchio di problemi», ha ironizzato un dissacratore culturale come Douglas Coupland. Il selfie è entrato a braccio teso nel campo dell’arte, e sembra volerci rimanere. Concorsi per selfie d’autore ne trovate in decine di programmi estivi degli assessorati alla cultura, mostre idem, i giornali d’arte compilano raccolte. Il critico americano Patrick Lichty ha lanciato un call per selfie-artisti e ha dovuto fermarsi a cinquanta. Tra le post-femministe il selfie è la nuova bandiera, Richard Prince il grande “appropriatore” postmoderno ha fatto una scorribanda sui loro profili Twitter e ha stampato e rivenduto i loro selfie per 90 mila dollari l’uno, facendole infuriare. Anche le porte auguste del tempio della figura umana, la National Portrait Gallery di Londra, si sono spalancate due anni fa per una collettiva di diciannove “artisti che interpretano il selfie”. Ai Weiwei, il più celebre tra gli artisti di cui nessuno saprebbe citare un’opera, è ormai un selfista compulsivo. Anche chi si ribella, come l’olandese Melanie Bonajo coi suoi Antiselfie o Alec Soth con i suoi Unselfie dove si mostra coprendosi il volto, ne celebra la potenza. Sembrano tutti convinti che il selfie sia (scomodiamo Panofsky) la “forma simbolica” del terzo millennio, e magari hanno ragione. Se ne rintracciano i precursori lontani (Parmigianino? Rembrandt?) e vicini (Escher? Warhol? Kahlo?), se ne stilano genealogie bizzarre e imprecise, perché il selfie non è l’autoritratto e non è neppure l’autoscatto, è davvero una novità assoluta fra i generi dell’immagine, leggere l’utilissimo iRevolution di Irene Alison, bella introduzione alla storia della mobile photography fresca di stampa da Postcart, per approfondire. Il selfie non ha padri nobili, non si inserisce educatamente in nessuna tradizione. Neppure in quella dell’autoritratto fotografico, di cui non rispetta nulla, le regole di composizione, le proporzioni, le presunzioni: leggete le guide al selfie perfetto (da agosto è nelle edicole italiane anche una rivista specializzata, dal titolo – indovinate – Selfie): punto di ripresa molto in alto, o molto in basso, testa inclinata, i primi fotofonini con obiettivi grandangolari in affanno producevano distorsioni quasi comiche ma il selfie ha avuto successo anche per quello; e poi quel braccio, inevitabile, in primissimo piano, sfocato, che esce dall’inquadratura perché deve reggere il telefonino, ma sembra un cazzotto in faccia all’osservatore (peggio ancora il selfiestick, la protesi, uno spiedo nell’occhio), tutte cose che farebbero venire la nausea al gotha dei ritrattisti, da Nadar ad Avedon, e invece eccoli lì, i selfie “sbagliati” ma felici, scambiati a milioni (solo in Gran Bretagna, l’autorità delle comunicazioni ne stima la produzione in 12 miliardi l’anno). Perché il selfie è un’immagine che richiede uno sforzo consapevole di costruzione (non sono mai foto casuali) senza volere essere arte, e in fondo senza neppure voler essere bella. E questo, un sacco di gente colta non riesce a mandarlo giù. Ma soprattutto: il selfie è una neofoto a pieno titolo, un oggetto iconico non identificato, non solo per la sua tecnica retroversa e la sua estetica pasticciona (quante anti- estetiche sono poi diventate ufficiali…?), ma per una capitale differenza da qualsiasi ritratto precedente: il selfie è un’immagine disseminata, simultanea, senza passato e senza futuro, un’immagine di flusso e non di deposito, è un’immagine a perdere. Ed è, fortissimamente, un’immagine relazionale. Chi pensa che la sua cifra antropologica sia il narcisismo non conosce la mitologia classica: Narciso trascura la seducente Eco per perdersi nella propria immagine, accessibile solo a lui, e infine morirne solitario, mentre il selfie esiste solo e soltanto per essere condiviso, caricato immediatamente in Rete, sparso al vento del web. Aspettando poi i like di ritorno. Narciso non aspettava like. Lo avrebbero distratto. Sì, certo, una narcisa moderna come Kim Kardashian, eroina dei reality, ha venduto 40 mila copie in tre mesi del suo noiosissimo album Selfish (e sarà la prima statua di cera di Madame Tussaud in posa da selfie) ma questo è solo marketing furbetto, una versione aggiornata dei calendari pin-up, il selfie vero non è affatto selfish, non è egocentrico, al contrario, è una imprevedibile estensione della tastiera dei nostri messaggi sociali, un nuovo formidabile repertorio della semiotica relazionale che si aggiunge e s’intreccia alle parole, alla mimica, ai gesti, all’abbigliamento, al make-up, al tono della voce. È un nuovo attrezzo della vita quotidiana come rappresentazione che avrebbe entusiasmato Erving Goffman, è la segnaletica inedita di quella conversazione permanente e ubiqua in cui la Rete ci ha avvolto: anche le smorfiette, le linguacce, le duckface, le boccucce a cul-di-gallina, non sono infantilismi, sono lettere di un alfabeto iconico intercalare, complementare, svolgono la stessa funzione delle “faccine” delle emoji nei messaggini Whatsapp, ossia introdurre nel dialogo quegli accenti emotivi, quei toni, quegli stati d’animo che con le parole non riusciamo a esprimere: solo che in più lo fanno con la nostra faccia. Il vero rischio del selfie semmai è il suo eccessivo successo, il selfie potrebbe morire di saturazione da selfie, come profetizza sarcastico un grande fotografo, Ferdinando Scianna: «Nessuno può guardare con interesse qualcuno che sta perennemente in posa, soprattutto se è a sua volta occupato a stare in posa pure lui». Di tutto questo, gli artisti affascinati dal selfie non si curano, forse non ne sanno nulla, comunque la loro appropriazione quasi sempre è solo formale, di maniera, quando non di pura convenienza cavalca- onda. Il selfie sta cambiando il nostro rapporto con la nostra maschera sociale, è un fenomeno antropologico profondo, è una cosa troppo seria per lasciarla in mano agli artisti. Tenete i selfie fuori dai musei, non metteteli in gabbia, non fateli morire in cattività, per favore.