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 2015  novembre 21 Sabato calendario

Le radici africane della jihad globale

Nella guerra al Califfato si alleano il sacro e il profano, François Hollande con Vladimir Putin, Putin con Ali Khamenei, la Guida Suprema della Repubblica islamica iraniana che il presidente russo incontrerà lunedì a Teheran. Un ex comunista nostalgico dell’Unione Sovietica con l’erede della rivoluzione islamica sciita del 1979. E in mezzo c’è Barack Obama che, come l’Europa, deve ancora davvero decidere cosa fare.
La jihad è sans frontières. Come dimostra l’attacco a Bamako, diretto a colpire la presenza occidentale ma anche quella delle Nazioni Unite e africana, oltre naturalmente la Francia che con il suo intervento militare in Mali nel 2013 aprì la guerra dell’Europa contro al- Qaeda nel Sahel.
Un intervento reso necessario da un altro errore di calcolo: il bombardamento di Gheddafi, avviato da Parigi nel 2011, aveva sprofondato le frontiere della Libia di mille-duemila chilometri lasciandole senza più un guardiano.
La jihad è senza frontiere perché sono letteralmente spariti i confini di interi Stati. Chi si è avventurato lungo i 7.600 chilometri delle frontiere del Mali lo sa: c’è un doganiere scalzo e male armato ogni 300 chilometri con lo sguardo a un orizzonte senza futuro, verso una Timbuctu che un tempo era la metafora proverbiale della fine del mondo.
La frammentazione africana, come quella del Medio Oriente, era prevedibile. In Mesopotamia sono affondati i confini coloniali tracciati nel 1916 di Sykes-Picot, mentre molti Paesi africani non sono diventati degli Stati e forse non lo saranno mai. Lo abbiamo visto in Mali, accade tra Niger, Nigeria e Ciad, oltre al caos stranoto della Somalia degli shaabab islamisti.
I seguaci di Al-Qaeda e del Califfato hanno aggredito lo spazio apparentemente vuoto del Sahara, un mare di sabbia solcato dai flussi inarrestabili della guerriglia, del contrabbando, dei migranti.
Il raggio dell’influenza islamista vuole estendersi alla Mauritania (fosfati e miniere), al Niger (uranio, 35% dell’energia francese) ma il bersaglio grosso resta la Nigeria, il gigante petrolifero del continente, con i suoi 160 milioni di abitanti e le 400 etnie federate in 36 stati. La jihad è in lotta ovunque per accaparrarsi non solo seguaci ma anche risorse economiche.
È questa una jihad globale, come raccontano gli eventi di Parigi e le sue ramificazioni europee, effetto della scossa tellurica che scuote non da oggi il mondo musulmano dal Medio Oriente al Maghreb, dal Sahara all’Africa occidentale, dal Mar Rosso all’Afghanistan.
Anche le cifre aiutano a capire la dimensione della Jihad. L’ultimo rapporto del Global Terrorism Index sottolinea che nel 2014 al primo posto tra i gruppi terroristici per numero di vittime c’è il Boko Haram nigeriano: 7.500 morti. Al secondo viene il Califfato con poco più di 6mila. Le vittime del terrorismo l’anno scorso sono state 32.658, con un aumento dell’80% e la maggior parte dei morti si è avuta in cinque Paesi: Afghanistan, Iraq, Nigeria, Pakistan e Siria. Gli stessi musulmani sono la maggior parte delle vittime, gli occidentali meno del 2,5 per cento.
Che cosa rende l’Isis e la galassia islamista così temibili? La capacità di trovare, creare e gestire il caos. Il caos e la paura generata dagli attentati di Parigi è esattamente quello su cui puntano i jihadisti: coinvolgere l’Occidente nei conflitti del Medio Oriente e africani. Quando il segretario di Stato americano John Kerry li chiama degli «psicopatici» forse non sbaglia del tutto ma la definizione è un po’ riduttiva.
Già nel 2004, in piena occupazione americana dell’Iraq – altro errore storico – il gruppo di Abu Musab Zarqawi, méntore del Califfo Al Baghdadi, indicava nei suoi documenti gli obiettivi: «Colpire i civili, espandere gli attacchi al nemico crociato-sionista, seminare il terrore nella popolazione, danneggiare le economie». Per la verità bersagli non molto diversi da quelli che gli estremisti sunniti si ponevano già qualche decennio fa. Poco prima del colpo di stato del generale Al Sisi, al Cairo incontrai Nabil Naimi il fondatore della Jihad islamica egiziana, l’uomo che ha organizzato nel 1981 l’assassinio di Sadat, combattuto in Afghanistan e Yemen, amico di lunga data del capo di Al-Qaeda Ayman al-Zawahiri. Fu chiaro: «L’ho detto anche a un consigliere di Obama che mi chiedeva come reclutiamo gli attentatori suicidi: guardate alla finestra, fuori ci sono 80 milioni poveri ai quali garantiamo il Paradiso di Allah».
La jihad promette una gloria e una causa assoluta che l’attuale società non offre. Per questo fa proseliti pure in Occidente e non solo tra i diseredati: la sua potenza seduttiva si sostituisce alle vecchie ideologie in disarmo proponendosi come la sola e autentica verità. E l’ultima ideologia che dà un senso al mondo, un movimento rivoluzionario che è riuscito a conquistare tra Siria e Iraq un vasto territorio con milioni di persone e fornisce un riferimento a tutti i jihadisti o aspiranti tali.
In Europa, nonostante l’Occidente sia un suo bersaglio, può seminare terrore ma non avrà mai uno Stato. Il suo vero combattimento è dentro l’Islam: per questo anche gli Stati arabi e musulmani sunniti che hanno sostenuto e appoggiato il Califfato per annientare i rivali sciiti dovrebbero fare una riflessione seria. Conviene allearsi per combattere l’Isis piuttosto che essere travolti dalla destabilizzazione per decenni. E all’Occidente conviene non ripetere gli errori del passato: siamo già in guerra da anni nel mondo musulmano e ci è costato già caro.