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 2015  novembre 22 Domenica calendario

Un esperimento di realtà virtuale per scoprire come funzionano le emozioni

Il cervello è più esteso del cielo, scriveva Emily Dickinson. Perché, mettili fianco a fianco, l’uno l’altro conterrà con facilità, e te in aggiunta. Il cervello è più profondo del mare, prosegue la poetessa. Perché tienili, azzurro contro azzurro, l’uno l’altro assorbirà. Il cervello ha giusto il peso di Dio, continua la poesia. Perché soppesali, libbra per libbra, ed essi differiranno, se differiranno, come la sillaba dal suono.
Nel mio cervello ci sono io, e c’è il mondo per come ho imparato a conoscerlo finora. Sto conducendo il mio viaggio-inchiesta nei laboratori italiani di neuroscienze proprio per capire come funziona questo strabiliante oggetto da 80 miliardi di neuroni e neanche un chilo e mezzo di peso. La realtà virtuale immersiva è molto più di un gioco, è diventata uno strumento potente per studiare le percezioni e il senso di sé. Ci si immerge in una realtà generata al computer, concepita così bene da ingannarci facendoci credere che sia tutto vero. Io ho la fortuna di sperimentarla alla Fondazione Santa Lucia di Roma nell’AgliotiLab. Tre schermi verticali e uno orizzontale, sul pavimento, proiettano rappresentazioni aggiornate in tempo reale per tenere conto dei miei movimenti. Questo ambiente di tre metri per tre è chiamato «cave», in onore di Platone e della leggendaria caverna. Quella dove vivevano uomini condannati a vedere il mondo esterno solo attraverso le ombre proiettate dalla luce del fuoco.
Il mio esordio è all’insegna del fattore wow, fluttuo nell’aria e posso persino infilare la testa dentro un enorme cervello virtuale. Poi comincia l’esperimento: mi siedo tenendo le braccia fuori dal campo visivo in modo che la realtà virtuale possa darmi un arto illusorio da incorporare mentalmente. So che quella mano che cerca di afferrare il bicchiere non è la mia, ma il mio cervello cerca di controllarne il movimento lo stesso. È così che forse si sentono i trapiantati di mano, penso, oppure le persone che per un disturbo neurologico non percepiscono più come propria una parte del corpo. Ma è solo l’inizio.
All’improvviso spunta un coltello che va a conficcarsi nel mio braccio virtuale. Ora a infilzarmi è una siringa, ed è anche peggio. Poi la mia mano mi appare mozzata. Anche l’avatar umano di fronte a me viene colpito per mettere alla prova la mia capacità empatica. Tra uno stimolo negativo e l’altro c’è una mano virtuale che si allunga a darmi una carezza. Ma non funziona altrettanto bene: il dolore è un’esperienza più forte del piacere, perché evitarlo è un imperativo evolutivo più pressante, serve a sopravvivere. Non sono spaventata a livello razionale, cerco di scherzare, ma ho le pupille dilatate, il cuore batte in fretta, il sangue affluisce ai muscoli, la pelle suda. Sono in uno stato di eccitazione generalizzata. La temperatura del braccio sostituito da quello virtuale scende di qualche frazione di grado, rivela la termocamera a. È come se, incorporando l’arto illusorio, il cervello dis-incorporasse quello vero. Durante la coltellata però la conduttanza elettrica dell’epidermide aumenta, una reazione che ricorda l’ancestrale rizzarsi dei peli degli animali spaventati. Sostituendo il mio corpo con uno virtuale e cambiandone le sembianze, mi dice Gaetano Tieri, si possono studiare i pregiudizi di razza e di genere.
L’esperienza di realtà virtuale più grande è quella creata ogni giorno dal nostro cervello per offrirci una rappresentazione coerente del mondo. E che la paura sia il pungolo più efficace per la mente me lo conferma anche la tappa successiva del mio viaggio all’Università di Cesena. «Tra gli stimoli positivi, solo quelli erotici possono competere», mi spiega Giuseppe Di Pellegrino. Provare per credere. Mi vengono mostrate delle immagini di predatori, poi di guerra. Degli elettrodi fissati sulle dita della mia mano consentono di misurare le mie emozioni. In confronto la visione di un abbraccio tra innamorati mi lascia quasi indifferente. La scena di un amplesso, invece, fa impennare il segnale. È l’altro imperativo dell’evoluzione che si manifesta, quello riproduttivo.
Nella stanza accanto lavora il gruppo di Elisabetta Ladavas. Il potere della paura questa volta lo sperimento grazie a degli elettrodi che mi pizzicano le guance. Gli stimoli visivi e quelli tattili interagiscono, e quando sul monitor compaiono dei visi spaventati hanno l’effetto di potenziare la mia capacità percettiva. In questo modo riesco ad avvertire anche scosse elettriche leggerissime. «La paura è un’emozione che ha una via preferenziale: se vedo una persona spaventata, forse sono in pericolo anch’io e devo essere pronta a reagire», mi dice Caterina Bertini. Se davanti avessi delle facce contente non sarebbe lo stesso, perché la felicità non rappresenta un segnale altrettanto utile per la sopravvivenza.
Il disgusto serve a evitare pericoli di contagio ed è abbastanza potente. La rabbia attiva l’amigdala come la paura, ma richiede analisi più raffinate in aree di livello superiore. La tristezza è la meno efficace, anzi spesso le facce neutre vengono percepite come tristi. Insomma questo tipo di test non rispecchia la gerarchia dei personaggi del film Inside Out della Pixar. È curioso che chi ha perso metà del campo visivo per colpa di una lesione riesca a percepire una faccia spaventata anche se gli viene mostrata nella zona cieca. I segnali visivi evidentemente passano anche per vie sottocorticali, vediamo cose di cui non siamo consapevoli. È un’altra evidenza che si aggiunge alla montagna crescente di prove: la parte conscia delle nostre attività cerebrali è solo la punta dell’iceberg.
Quando osserviamo un sorriso, ad esempio, usiamo sia le emozioni che la capacità di formulare ipotesi sullo stato mentale degli altri. Per capire se siano più importanti le prime o la seconda si possono inibire aree cerebrali diverse con una stimolazione magnetica transcranica. Io la provo sull’area motoria e le mie dita si alzano ogni volta che Sara Borgomaneri fa partire un impulso, non posso fare nulla per impedirlo. Ma se si interferisce con le aree implicate nel riconoscimento dei volti e nell’imitazione, allora diventa difficile distinguere i sorrisi veri da quelli falsi. Inibire la mentalizzazione invece incide meno sul risultato. Le donne, mi dice Alessio Avenanti, non sono più brave a indovinare se i sorrisi sono sinceri ma riescono a simularne meglio uno e a mentalizzare. La psicologia evoluzionistica è spesso abusata, ma la tentazione è forte: questa differenza tra i sessi non sarà il risultato di una suddivisione ancestrale dei compiti nelle società primitive, con le donne impegnate a tessere alleanze negli accampamenti mentre gli uomini erano fuori a cacciare?