il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2015
«Per fare cinema ci vuole passione e culo». Intervista a Luca Guadagnino
I complessi musicali e quelli personali, l’amore di ieri e il compromesso di oggi, l’età che passa, il desiderio che non muore, una vacanza, il cinema e le possibilità di un’isola. Come nell’omonimo quadro di Hockney, in A Bigger Splash di Luca Guadagnino, ci sono palme, sole, tranquillità apparente e l’acqua è agitata da ciò che si nasconde o arriva all’improvviso.
A Pantelleria, con la figlia (Dakota Johnson), Ralph Fiennes sbarca per dividere un soffio d’estate con la compagna di un lontano passato, una rockstar in convalescenza (Tilda Swinton) e con il suo giovane e irrisolto fidanzato (Matthias Schoenaerts).
Tra un fango, un tuffo e un erotismo di ritorno, l’atmosfera si fa presto irrespirabile, la leggerezza muta in dramma e il romanzetto rosa, in giallo. Presentato in concorso a Venezia, venduto in tutto il mondo, coprodotto con Marco Morabito e Michael Costigan (Brokeback Mountain) e distribuito dal 26 con Lucky Red in 160 copie, A Bigger Splash è il quarto film per il cinema di un palermitano del ’71 che tra corti, documentari (Mundo civilizado, Bertolucci on Bertolucci) e produzioni indipendenti, si muove freneticamente da un paio di decenni.
È partito da lontano?
Da lontanissimo. E per dirlo con un linguaggio da posta del cuore, sono la dimostrazione esatta che i sogni possono davvero realizzarsi. Ho fatto cinema per casualità, intuizione e grande fortuna. Chiunque affronti questo mestiere deve accettare l’idea che senza colpi di culo non si arriva da nessuna parte.
A Palermo sognava di diventare regista?
Sono sempre stato cinefilo, ma Jean Renoir me lo fece conoscere Franco Maresco. Da ragazzino magrissimo andavo a trovarlo nella sua videoteca e gli facevo molte domande. All’inizio gli ero indifferente, poi Franco che non faceva ancora Cinico tv si incuriosì e fu generoso. Mi diede una videocassetta di Boudu salvato dalle acque, un film del 1932.
E di cosa parlavate con Maresco?
Di molte cose, anche di donne: “Devi odiarle” diceva Franco. “Le donne feriscono, devono essere usate”. Io le donne le amo, però Franco lo ascoltavo. Sono stato felice di aver contribuito a produrgli Belluscone. È un capolavoro.
Chissà cosa ne avrebbe detto Laura Betti.
Di cosa?
Del consiglio di Maresco.
L’ho incontrata che avevo poco più di vent’anni ed è stata importante. Laura mi ha spiegato la bellezza della violenza. Aveva questi scatti d’ira, queste tirate verbali che non ti risparmiavano.
Anche con lei?
“Zoccoletta, puttanella, pezzo di merda”. Cosi mi chiamava.
Lei cooptò Betti nel suo primo film, The Protagonists, con Tilda Swinton.
Me ne ha fatte vedere di tutti i colori, ma mi ha sempre trattato alla pari. Non ti guardava mai dall’alto in basso, Laura. Ti diceva le cose che pensava, ti insegnava a crescere, a prenderti le tue libertà. Con lei ho passato molto tempo. Mi avvicinai con l’idea di farle interpretare La Signorina Else di Schnitzler, un’idea che non aveva una sola possibilità di vedere la luce e non certo perché il suo corpo, il suo corpo grasso di cui lei stessa aveva creato una fenomenologia, non potesse contenere quello della 18enne di Vienna immaginata nel monologo.
Cosa facevate insieme?
La accompagnavo a cercare case per l’estate, collaboravo, mi arrabattavo incontrando un mondo intellettuale in cui lei per presenza e carisma dominava. Una volta mi mandò a fare delle fotocopie con delle indicazioni assurde e contraddittorie. Mi consegnò un plico enorme, c’erano decine di fogli segnati a penna: “Puttanella, fotocopia questo, ma non quest’altro”. Un rebus.
Che lei risolse?
Feci esattamente come mi aveva detto e al ritorno trovai la belva: “Sei un coglione, come faccio a leggerle così? Che me ne faccio? Sei solo un demente che esegue gli ordini, non andrai da nessuna parte”. Mi insegnò a non essere stupido, servile, corrivo. Ho sempre pensato che Betti fosse di una dolcezza infinita. Non una donna frustrata dal suo amore impossibile per Pasolini.
Emanuele Trevi che lavorò alla fondazione Pasolini sull’incontro con Betti ha scritto un libro.
Qualcosa di scritto. Un bellissimo libro. Di Laura con Emanuele ho parlato. La sua percezione di questa donna mostrificata, da giovane eterosessuale, qualche grave difficoltà gliela creò.
Con la Betti – mi ha detto – incontrò un cenacolo intellettuale.
Archibugi, Enzo Siciliano e Scola che per Laura cucinava le polpette. Io ero lì, fuori dal cerchio, a guardarli.
C’era anche Bertolucci. Sul regista lei e Walter Fasano avete girato anche un documentario.
Bertolucci è una storia diversa. Oggi con Bernardo c’è un’amicizia, ma all’epoca io sapevo chi era e lui, come tutti gli altri, non aveva idea di chi fossi io.
Che sensazioni aveva da quegli incontri?
La sensazione netta, confusa e molto presuntuosa del mondo a cui non volevo appartenere. Oggi comunque gli intellettuali italiani non esistono più e una come Laura Betti manca molto. In occasione del quarantennale della morte di Pasolini ho letto molte cose. Tutte o quasi attraversate da un revisionismo implacabile. Adesso pare che Betti e i suoi amici fossero tutti dei piccoli borghesi impegnati a darsi delle arie e che Pasolini sia morto perché era un frocione che voleva farsi i 16enni e se l’è andata a cercare. Una canea. Anzi, una duplice canea.
Duplice?
Da un lato c’è questa riconsiderazione della morte di Pasolini, del significato e del modo in cui ha perso la vita, dall’altra una santificazione socialdemocratica e votata al marketing. Due fenomeni distanti non solo da quel che persone come Betti pensavano di Pasolini, ma anche da ciò che qualsiasi italiano di media cultura, me compreso, hanno capito leggendolo o vedendo i suoi film.
Su Facebook, Gabriele Muccino ha scritto che i film di Pasolini erano dilettanteschi.
E mi dispiace, perché se ci avesse pensato un istante in più forse una sciocchezza simile non l’avrebbe detta. Adesso Pasolini non sapeva girare e addirittura avrebbe dato la stura ai pessimi film italiani degli anni 80? Ma stiamo scherzando? Ma che idea è del cinema? Il cinema è pensiero. Non tecnica.
A Venezia il suo film è stato incensato da Variety e dal Guardian trovando qualche resistenza nella critica italiana.
Chiunque stronchi un film è legittimato a farlo. Lo dico dall’alto del mio piacere di stroncare ciò che vedo, anche se dopo i 40 anni ho iniziato a essere più renoiriano e a parlare solo di quello che mi piace e non delle cose che fanno schifo che pure sono tante e ci circondano.
Quindi chi stronca ha ragione?
Fai un film che come qualsiasi altra espressione artistica è un rischio. Ti esponi. Ti metti in gioco. E cosa metti in gioco? Una reputazione. Un risultato.
È contento di quello di A Bigger Splash?
Molto. È stato acquistato ovunque, America, Cina, Asia, Libano persino. Venezia è stata importante, il film è stato accolto con affetto e ha iniziato un percorso che lo ha portato in un bel luogo.
Felice dell’interesse degli americani?
Ma quello degli americani e di Hollywood è un falso mito. Un mito provinciale. Ce lo ha insegnato proprio Bertolucci: per esserci non c’è bisogno degli americani. A lui sono serviti soltanto per distribuire film, non per produrli.
Lei si sente sottovalutato in Italia?
Neanche un po’. Al limite mi dispiace che chi mi giudica, anche benevolmente, non conosca i miei film. Il mio lavoro. L’evoluzione che c’è stata. È un po’ deludente.
In A Bigger Splash nel ruolo di un comandante dei carabinieri, brilla Corrado Guzzanti.
Per formare il cast ho chiesto aiuto a Stella Savino e ad Avi Kaufman e per il ruolo del maresciallo Carmelo La Mattina avevo intenzione di sottoporre qualche attore a un provino. Di Corrado, che non conoscevo, ero da sempre grande ammiratore. Ha fatto un provino straordinario.
Qualche critico a Venezia ha ravvisato nel personaggio di Guzzanti un’irrisione dei carabinieri.
La madre dei cretini è sempre incinta.
Guzzanti è stato professionale?
Ma professionale non vuol dire niente, professionale è una parola orrenda. È stato generoso.
Chi è stato generoso all’inizio della sua carriera?
Tilda Swinton. Portai a Massimo Vigliar, un produttore, una sceneggiatura di 35 pagine con l’idea di proporla a Tilda Swinton: “Se lei fa il film, te lo produco” disse lui e mi mise in mano le chiavi della sua casa di Fulham Road a Londra per tentare un approccio.
Lei non conosceva Swinton?
Ero fuori da qualsiasi giro e se avessi mandato una email alla sua agente non sarei stato sicuramente preso in considerazione. Così mi piazzai a Londra e presi tempo. Trovai il suo indirizzo. Il suo telefono. Mandai un paio di messaggi senza risposta. Ero a Londra da più di due mesi e Vigliar premeva: “Se non ottieni il suo sì in una settimana il film non si fa più”. Preso dalla disperazione, mi misi a cucinare il buccellato, un tipico dolce siciliano e poi spedii mia cugina alla porta di Tilda con il fagotto e un biglietto di presentazione.
E Swinton?
Prese il dolce, mi telefonò e mi disse che stava partendo per girare con Tim Roth in Galles: “Ne riparliamo a gennaio”. Presi tempo anche con Vigliar, mentendo di nuovo: “Tilda ha detto sì” e poi pregai per 45 giorni. Al ritorno, incredibilmente, Tilda disse: “Lo faccio”. Un miracolo.
Oggi come le sembra quel film?
Delirante, se ci penso un po’ mi vergogno. Esprimeva un grande desiderio di fare cinema, questo sì.
A quel tempo bussava alla porta dei produttori?
In una di queste serate romane di festa mi trovai a cucinare un couscous di pesce. C’erano anche Camilla Nesbitt e Pietro Valsecchi. Parlammo: “Hai un film che vorresti fare? Vienimi a trovare in ufficio”, disse lui. Mi presentai con un progetto di romanzo erotico da riadattare e lui mi chiese di quanto tempo avessi bisogno per girarlo: “16 settimane”. Sbiancò. “16 settimane? Ma è tantissimo”. “L’età dell’innocenza – replicai – fu girato in 25”. Mi accompagnò alla porta. Va da sé che Valsecchi non l’ho più incontrato per i vent’anni successivi.
Ora la aspetta il remake di Suspiria di Dario Argento.
Vidi Suspiria quando avevo 13 anni. Rimasi turbato e molto colpito e ho sempre sognato di farne una mia versione. Come ho capito nel tempo al di là delle efferatezze, il cinema di Argento è molto morbido, molto infantile, racconta un archetipo fiabesco, come è archetipica, al di là del progressive rock o delle immagini iperespressioniste, anche la storia di Suspiria: la vicenda di una ragazza americana che arriva in Germania per raggiungere una scuola di danza e si trova in un luogo infestato dalle streghe.
L’obiettivo del suo Suspiria?
Mi interessa approfondire il tema della maternità, della rimozione e della colpa collettiva.
È strano cimentarsi con Argento?
Perché? Ho adorato Lamberto Bava e più in generale sono un fan dell’horror.
Argento non sembra particolarmente contento dell’operazione.
Dario ci ha venduto i diritti per una cifra considerevole ed era ben felice di farlo. Vedo che oggi si lamenta perché il suo film è sfruttato per ragioni commerciali: aveva il potere straordinario di dire di no, ma di fronte ai soldi ha preferito dire sì.
Quindi?
Forse un tipico caso di chiagni e fotti all’italiana? O forse solo il timore di veder messa in discussione una meritata fama? Non lo so. So che Argento non si deve preoccupare. È un maestro.
Ha già scelto gli attori?
Come in A Bigger Splash ci saranno sia Dakota Johnson sia Tilda Swinton. Mi mancano due ruoli da assegnare.
Ha pensato ad attori italiani?
Si gira in Germania, perché dovrebbero esserci attori italiani?
C’è un film che le piacerebbe fare?
Bisognerebbe scrivere un libro su tutti i film desiderati e mai fatti. Una controstoria del cinema. Avevo letto un articolo di Emiliano Morreale sul tema.
Il libro lo ha scritto Gian Piero Brunetta. Il Mastorna di Fellini, Il Napoleone di Kubrick, L’assedio di Leningrado di Leone.
Facciamo le corna e tocchiamoci le palle, ma un paio di titoli ce li avrei anch’io. Ci sono andato vicino in passato, domani chissà.
I titoli?
Bugie al tempo di guerra di Louis Begley perché per parlare di oggi devi sempre guardarti indietro e Il grande nulla di James Ellroy, gigantesco horror-noir sull’omosessualità nella Hollywood degli Anni 50. Ho smesso di lamentarmi del mio mestiere dopo aver parlato con Ellroy al telefono del suo romanzo per un’ora e mezza. Come le dicevo, molti sogni si sono realizzati.
Ha mai pensato a girare una serie? Le piacciono?
Penso che chiunque ami le serie tv contemporanee sia uno stolto e un poveretto.
Come può dire una cosa simile? Ci verrebbe voglia di parafrasare Renato Carpentieri in Caro Diario di Moretti: “Breaking bad, House of Cards e Homeland sono forse il nulla?”.
Le serie tv americane rappresentano al tempo stesso il collasso del linguaggio e il trionfo della scrittura: una ripetizione di quel virus che ha distrutto il cinema. Parole, parole, parole, dialoghi, dialoghi, dialoghi, niente altro che sceneggiature filmate.
Non riconosce loro dignità?
C’è qualche eccezione, come Dietro ai candelabri di Soderbergh, ma in generale sono oggetti audiovisivi che scambiano lo stile per la forma e la trama per il linguaggio. Dignità, diceva lei. Io la dignità la riconosco a Twin Peaks di Marc Frost e David Lynch.
Non le sembra di essere snob?
Ma neanche un po’. Sono andato a vedere Lobster di Yorgos Lanthimos, uno di questi registi fighetti che lavora su un’idea e la replica all’infinito. Nonostante l’abbia trovato odioso, l’esperienza della sala rimane insostituibile. Lei mi vuole convincere che sul divano di casa si provi la stessa emozione, ma la stessa emozione, se non vedi spegnersi le luci, non esiste.