la Repubblica, 22 novembre 2015
Secondo l’economista Piketty per sconfiggere il terrorismo bisogna fare la guerra alle disuguaglianze
La risposta al terrorismo dev’essere in parte la garanzia della sicurezza. Colpire Daesh, arrestare i suoi adepti. Ma dobbiamo anche interrogarci sulle condizioni politiche di queste violenze, sulle umiliazioni e ingiustizie che in Medio Oriente hanno determinato l’importante sostegno di cui beneficia quel movimento, e in Europa suscitano oggi vocazioni sanguinarie. Al di là del breve termine, l’unica vera risposta sta nell’attuazione, sia qui che laggiù, di un modello di sviluppo sociale ed equo. È una realtà evidente: a nutrire il terrorismo è la polveriera delle disuguaglianze in Medio Oriente, che abbiamo largamente contribuito a creare. Daesh, lo “Stato Islamico d’Iraq e del Levante”, nasce dalla decomposizione del regime iracheno, e più in generale dal tracollo del sistema di confini stabiliti nella regione nel 1920. Dopo l’annessione del Kuwait da parte dell’Iraq, nel 1990-1991, le potenze coalizzate inviarono le loro truppe per restituire il petrolio agli emiri e alle compagnie occidentali. Si inaugurò in quell’occasione un nuovo ciclo di guerre tecnologiche e asimmetriche: alcune centinaia di morti nella coalizione nata per “liberare” il Kuwait, contro varie decine di migliaia di vittime dal lato iracheno. Questa logica è arrivata al parossismo durante la seconda guerra in Iraq, tra il 2003 e il 2011. Circa 500.000 morti iracheni contro un po’ più di 4.000 soldati americani uccisi. E tutto questo per vendicare i 3000 morti dell’11 settembre, che pure con l’Iraq non avevano nulla a che fare. Questa realtà, amplificata dall’estrema asimmetria delle perdite in vite umane e dall’assenza di sbocchi politici nel conflitto israelo-palestinese, serve oggi a giustificare tutte le efferatezze perpetrate dai jihadisti. C’è da sperare che la Francia e la Russia, entrate ora in azione dopo il fiasco americano, facciano meno danni e suscitino meno vocazioni. Al di là degli scontri religiosi, è chiaro che nel suo insieme il sistema politico e sociale della regione è fortemente determinato e reso vulnerabile dalla concentrazione delle risorse petrolifere in alcune piccole zone spopolate. Esaminando l’area che va dall’Egitto all’Iran, passando per la Siria, l’Iraq e la Penisola arabica, con un totale di circa 300 milioni di abitanti, si può constatare che il 60-70% del Pil regionale si concentra nelle monarchie petrolifere, con appena il 10% della popolazione. Per di più, nelle monarchie petrolifere, una parte sproporzionata di questa manna è accaparrata da una minoranza, mentre ampie fasce della popolazione sono tenute in uno stato di semi-schiavitù. Ma proprio questi regimi godono del sostegno delle potenze occidentali, ben liete di ottenere qualche briciola per finanziare i propri club di calcio, o di vendere armi. Non c’è dunque da sorprendersi se le nostre lezioni di democrazia sociale non hanno molta presa sui giovani mediorientali. Quanto ai discorsi sulla democrazia, sarebbe meglio smettere di farli solo quando i risultati elettorali sono di nostro gradimento. Nel 2012, in Egitto, Mohamed Morsi era stato eletto presidente in seguito a regolari elezioni: un evento tutt’altro che banale nella storia elettorale araba. Ma già nel 2013 fu destituito ad opera dei militari. I quali non tardarono a giustiziare migliaia di Fratelli Musulmani, che pure avevano compensato in parte le carenze dello Stato egiziano con la loro azione sociale. Pochi mesi dopo, la Francia cancellò tutto con un colpo di spugna per poter vendere le sue fregate e accaparrarsi una parte delle scarse risorse del Paese. Un caso di democrazia negata. Resta un punto interrogativo: com’è possibile che alcuni giovani cresciuti in Francia confondano Bagdad con la banlieue parigina, cercando di importarvi i conflitti che nascono laggiù? Non vi sono scusanti. Salvo forse notare che la disoccupazione e le discriminazioni nelle assunzioni non migliorano le cose. L’Europa, che prima della crisi riusciva ad accogliere un flusso migratorio netto di 1 milione di persone all’anno, oggi deve rilanciare il suo modello d’integrazione. È stata l’austerità a far esplodere gli egoismi nazionali e le tensioni identitarie. Solo con uno sviluppo sociale ed equo si potrà sconfiggere l’odio.