il Giornale, 23 novembre 2015
Golia, il barboncino di Mario Cervi morto di dolore quattro giorni dopo il padrone
Recentemente e della sua carriera nell’Olimpo della stampa e della cultura hanno scritto e scriveranno altri, molto più titolati di me. Io desidero ricordarlo per l’enorme affetto che riservava ai suoi cani e la grande sensibilità nei confronti degli animali. Me ne offre lo spunto un’altra scomparsa che mi è stata comunicata ieri dalla figlia Margherita, quella di Golia, il barboncino color albicocca che, per 17 anni, ha vissuto praticamente tra le braccia di Cervi, quasi temessero di perdersi l’un l’altro. Quando Margherita ieri mi ha detto «Sai, Oscar se n’è andato anche Golia, dopo quattro giorni dalla morte di papà e, come lui, per uno scompenso cardiaco» mi è sfuggita una frase fatta, quel «non ci posso credere» che usiamo spesso per mostrare stupore ma non scetticismo.
Sì, certo anche Golia aveva i suoi begli anni. Sì certo, Golia era in cura da anni per problemi cardiaci, ma era ancora un cane sereno, con voglia di vivere la sua vita dignitosa da «vecchietto». Questo almeno fino alla scomparsa del suo Mario. In pochi giorni si è intristito, lo sguardo perso di chi non trova più quelle braccia ossute, quelle carezze che solo gli anziani danno, così delicate e generose. E, dopo soli quattro giorni, se n’è andato anche lui, in poche ore, mentre i familiari assistevano a un dèja vu non immaginario. La fleboclisi, l’ossigeno, il tentativo inutile di rianimazione e la morte di chi ha deciso che è venuto a mancare un affetto troppo importante per scodinzolare ancora, per alzare le orecchie e non sentirne più la voce, per allungare il naso e non sentirne più il profumo. Fanno così anche i nostri animali, come era usanza dei vecchi capi indiani.
«Oggi è un bel giorno per morire». E non tentate di rianimarli, cari colleghi ve ne prego, anche se avete giurato di farlo. Quando è il momento (e se non lo capite studiare non vi è servito a niente) fate come me, lasciate che cedano finalmente alla loro stanchezza.«Non ci posso credere». Frase fatta, sfuggita stupidamente prima di pensarci. E invece ci credo, cara Margherita, come credo a quanto mi hai raccontato della mamma scomparsa otto ani fa. Ormai incosciente e incapace di riconoscere i propri cari per la maggior parte del tempo, un giorno, complici dei generosi infermieri, vi siete messi sotto la giacca proprio Golia e Gilda e li avete portati in casa di cura, posandoli accanto al suo letto. È stato l’unico momento in cui Dina ha aperto gli occhi e ha sorriso allungando la mano, a toccare quei soffici ricci di pelo. Poi si è richiusa per sempre serena nel suo oblio.Se apro il cassetto dei ricordi ne escono le schede di quelli che se ne sono andati pochi giorni dopo la scomparsa del loro più grande affetto. La Lilly e la signora Sofia, il signor Davide e il suo Rocky, la signora Elide e la sua adorata siamese Lulù. Solo le prime, delle cento, uscite dal cassetto. Ci credo, Margherita, io ci credo.