il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2015
«Una vetrina della letteratura». Buttafuoco ricorda il Palazzo della Mondadori a Roma, quello che chiuderà il 5 dicembre prossimo
Dove giace morto il Teatro delle Arti in via Sicilia, a Roma – un incrocio più avanti, lasciandosi alle spalle via Veneto – troverà oblio una delle storie dell’Italia migliore: il palazzo della Mondadori.
L’edificio, sede romana della casa editrice di Segrate, a partire da giorno 5 dicembre sarà vuoto. Niente più il via vai di fattorini, di redattori e di scrittori. Da lì Mara Samaritani, capo dell’ufficio stampa – più importante di un ministro, più determinata di Erwin Rommel – usciva per comprare i cachemire con cui accudire Carlo Fruttero. E sempre lì, Roberto Saviano, covando il suo successo, riceveva le troupe di tutto il mondo. Arrivava con la scorta e Giovanni, dall’ufficio postale, sfotteva: “È arrivato il signore degli anelli!”. Era una gag: “O Gesù”, gli dicevano tutti, dandosi di gomito, “lo consideri uno scrittore di fantasy?”. Candido, lui, masticando il proprio slang di Mondragone indicava le dita: “È tutto pieno d’anelli, tiene ‘o pollice cerchiato!”.
È finita. Lì, belli come in un romanzo, a bordo della moto arrivavano Goffredo Battelli e Antonella Colombo, rispettivamente capo della distribuzione libri lui, capo della sede lei. Ma lì, la rosa scolpita sull’arco a ogiva dell’ingresso – su cui è scolpita la rosa dannunziana e il motto, “in su la cima” – non avrà più la scorta d’onore di Simone Donazio e neppure più quella di Biagio Perilli, due delle Guardie giurate il cui giudizio, in tema di letteratura, faceva tremare perfino Pietro Citati.
Ha una storia questo edificio. Degna cornice di Margaret Mazzantini e Sergio Castellitto. Base operativa di Nuovi Argomenti (e dell’età ruggente dei due Antonio, Franchini e Riccardi) fu comprata con i proventi dei libri di Gabriele d’Annunzio. Sorge in prossimità di villa Borghese, originariamente doveva essere in un parco, circondato da giardini, e Arnoldo Mondadori ebbe a prendersi l’immobile da un nobile siciliano piegato dai debiti di gioco.
Tutto è romanzo. La decadenza non ha intaccato il glicine (che ancora oggi s’inerpica in un commovente intreccio fino ad abbracciare il terrazzo, e gli innamorati che lì si abbracciano) ma nel salone – dove si facevano le assemblee sindacali o i saluti di pensionamento – ha cancellato una loggia massonica. Il parquet e un maledetto open space hanno fatto reset su un souvenir tardo ottocentesco del biscazziere blasonato.
I ricevimenti in cortile – nel dopo Strega – e le penombre nella Sala degli Affreschi, per lungo tempo, risuonarono di sospiri e baci d’amore. È l’impronta del Vate. Ancora qualcosa di speciale resta se nel piano nobile della villa – scampato alla dissennata ristrutturazione anni ’70 degli interni – tutto volge a importanza. Come attesta il monogramma AME smaltato sulla vetrata del corridoio su cui Antonio Pennacchi, coppola in testa, si soffermava spesso a decifrarne i riflessi dorati.
La stanza dell’amministratore delegato – naturaliter riservata a Gian Arturo Ferrari qualunque sia il suo ruolo – espone la collezione della Fondazione Valla.
Era, questa di via Sicilia, a Roma, l’unica sede di proprietà della Mondadori. È stata anche sede dei giornalisti del gruppo editoriale. Era la vetrina della letteratura questo edificio. Sulla facciata ci sono ancora i motivi ornamentali della collana dei classici, i Libri della Medusa. La vendita ha girato l’ultima pagina. E la parola è fine.