Alias - il manifesto, 21 novembre 2015
Cosa resta di George Best
È pomeriggio inoltrato di una bella giornata di metà ottobre. Non fa troppo freddo e sul campetto del Cregagh Estate, a East Belfast, due ragazzini prendono a calci un pallone. O meglio, uno sta in porta e l’altro prova a trafiggerlo con qualche bel tiro dalla media distanza. Sullo sfondo, da un lato si erge un alto palazzone d’edilizia popolare, dall’altro si snoda una fila di più classiche casette a due piani, nei cui meandri si intravede un murales che raffigura un giovanotto con indosso la maglia verde della nazionale nord-irlandese. Da queste parti, ma non solo, il giovanotto è una vera e propria leggenda. George Best, perché ovviamente stiamo parlando di lui, su quel campetto color smeraldo ha perfezionato il suo dribbling mortifero e il suo tocco di palla fiabesco, che alla tenera età di 17 anni gli hanno permesso di esordire in prima squadra con il Manchester United. Ovvero lo squadrone allenato dall’antesignano di Alex Ferguson, Matt Busby, anche lui sir per meriti sportivi e scozzese di origini working class che si innamorò subito del talento del ragazzo di Belfast.
George è cresciuto a due passi dalla chiazza verde teatro di mille partite tra generazioni di fanciulli del quartiere, al 16 di Burren Way. Nei difficili anni che seguirono il secondo conflitto mondiale questi edifici dal tetto inusualmente piatto rappresentavano lo stato dell’arte delle case popolari, non foss’altro perché al loro interno c’era un bagno. Qui vennero a vivere, quando George era bimbetto, mamma Anne e papà Dickie, un operaio qualificato dei cantieri navali Harland e Wolff. Un’azienda divenuta famosa per aver partorito la nave più sfortunata di tutti i tempi, il Titanic. A tutt’oggi le gru gemelle della Harland e Wolff, denominate Sansone e Golia, dominano la skyline della capitale della porzione dell’Irlanda ancora sotto la dominazione britannica.
Burren Way si trova nel distretto di Castlereagh, a East Belfast, dove sui lampioni della luce e dalle finestre di molte case sventola la Union Jack. Secondo l’iconografia locale, che si fa presto a decodificare, vuole dire che siamo in un quartiere di fede protestante. Sullo stradone che porta al centro cittadino troneggia la Schomberg House, sede dell’Orange Order di cui era membro attivo Dickie, che alla loggia spesso portava con sé anche il figlio ancora imberbe. Non è un caso che papà Best si guadagnasse da vivere proprio alla Harland e Wolff, compagnia che dalla sua fondazione nel 1861 e fino a pochi lustri fa dava lavoro quasi esclusivamente a operai protestanti.
In realtà il giovane George aveva altre priorità nella vita, piuttosto che celebrare la vittoria del protestante re Guglielmo III sulle rive del fiume Boyne nei confronti delle truppe del cattolico Giacomo II, che qui sembra ancora un evento dell’altro ieri e non datato 1690. A lui piaceva stare appresso alle belle donne, giocare a pallone, gozzovigliare con champagne e beveraggi vari, vestire alla moda e guidare macchine sportive, non necessariamente in questo ordine. Sui suoi vizi e le sue “bravate” si sono versati fiumi di inchiostro e non vorremmo indugiare troppo sui singoli episodi. Però qualcosa non possiamo esimerci dal citarla.
Si dice che l’ex numero sette del Manchester United abbia collezionato solo 37 presenze (condite da 9 goal) con la nazionale irlandese perché fosse troppo indisciplinato, troppo allergico alle regole imposte dagli allenatori. Più che plausibile. A soli 22 anni, una volta vinta la Coppa dei Campioni contro il grande Benfica di Eusebio e il Pallone d’Oro, la carriera del Belfast Boy cominciò a essere minata da troppi “diversivi”. Così poteva capitare che a Londra non si presentasse a giocare un match contro il Chelsea perché invece di correre e dribblare nel fango dello Stamford Bridge preferiva trascorrere il pomeriggio in compagnia dell’attrice Sinéad Cusack, in altre faccende affaccendato. Però nel febbraio del 1972 nel match di qualificazioni ai Campionati europei contro la Spagna non scese in campo per ben altre ragioni. Perché aveva ricevuto delle minacce di morte dell’IRA. Era girata voce che avesse donato un gruzzolo di quattrini al Democratic Unionist Party, il partito dell’ultra-lealista reverendo Iain Paisley, uno dei nemici giurati dei cattolici. Probabile che fossero balle, ma è indubbio che in quegli anni era difficilissimo cancellare le proprie origini, specialmente se eri il giocatore più forte di tutto il Regno Unito e da bambino ti facevano sfilare nelle marce orangiste reggendo lo striscione della loggia locale.
A casa Best le foto appese un po’ su tutte le pareti ci raccontano le gesta del George campione, dei momenti felici. Ce ne sono anche alcune che testimoniano le sue memorabili prestazioni con la nazionale, condite da qualche pezzo d’alta scuola. Come quando a Windsor Park rubò palla al grande portiere inglese Gordon Banks che si accingeva a rinviare e segnò a porta vuota. L’arbitro non apprezzò il colpo di genio e annullò la marcatura. Peccato.
Nella sua cameretta invece ci sono ancora le poche cose che facevano la felicità di un bambino di umili natali a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta: la locandina di Spartacus, visto al vicino cinema Ambassador (ora soppiantato da un negozio di abbigliamento), la borsa dove metteva i ferri del mestiere (le scarpette da calcio) e il completino del Wolverhampton Wanderers, la fortissima squadra per cui faceva il tifo da bimbo. Casa Best non è un museo ma, da quando papà Dickie è mancato nel 2008, è stata acquistata da una charity impegnata in varie attività sociali in questa parte problematica di mondo, che per finanziarsi affitta l’intero appartamento ad appassionati di tutta Europa. Come ci spiega Heather, la ragazza che ci accoglie al nostro arrivo, “qui vengono in tanti a rendere omaggio a un campione che hanno visto giocare dal vivo o di cui hanno solo letto le gesta e visto filmati d’epoca”.
Appassionati che non possono esimersi dal fare un giro nel quartiere, visitando i luoghi frequentati dal mito nella sua adolescenza: la Nettlefield Primary School, la Lisnasharragh Secondary School, il negozio di fish & chips preferito, il gelataio di chiare origini italiane Desano. Non molto distante sorge the Oval, il vecchio stadio del Glentoran, la squadra con cui Best sostenne un provino a 14 anni. “Roba da matti, lo abbiamo scartato perché ritenemmo che fosse troppo gracile”, ci racconta il dirigente dei Glens John Moore mostrandoci una foto dove però il buon George indossa la caratteristica maglia a strisce verdi-nere e rosse del team di Belfast. Era l’agosto del 1982, dopo aver rischiato di andare ai mondiali in Spagna (ma all’ultimo momento non fu più chiamato e così divenne il più forte di tutti i tempi e non aver mai partecipato a una Coppa del Mondo) disputò contro il “suo” Manchester United un’amichevole per celebrare i 100 anni del Glentoran. “Lo stadio era ovviamente pieno e a ogni pezzo d’alta scuola di George i tifosi andavano in visibilio” aggiunge John. “Peccato che quella fu l’unica partita che abbia giocato per noi!”.
Da queste parti tornava ogni tanto per far visita al papà e alle sorelle – mamma Anne morì a soli 56 a causa della stessa piaga che avrebbe condannato suo figlio, l’alcolismo. Ma negli ultimi anni da calciatore Best era diventato un giramondo, impegnato a raccattare gli ultimi contratti tra Stati Uniti, Inghilterra, Irlanda e Scozia. Forse in quel frangente la sua vera casa era il Phene Arms Pub di Chelsea, dove beveva senza soluzione di continuità. Appese le scarpe al chiodo provò a riciclarsi come commentatore sportivo. Ma gli “incidenti” legati al suo quasi perenne stato di ubriachezza, anche in diretta televisiva, non si contano. Il vizio del bere non gli diede mai tregua, nemmeno dopo aver ricevuto il trapianto di fegato nel 2002 tramite i buoni servigi del servizio sanitario nazionale. Un fatto, quest’ultimo, che scatenò polemiche al vetriolo nel Regno Unito, specialmente perché il nostro riprese a frequentare la bottiglia poco dopo l’operazione.
Chi lo ha conosciuto lo descriveva come un ragazzo timido. Quando arrivò a Manchester, ancora adolescente, non avrebbe mai immaginato di diventare il quinto Beatle, il primo calciatore icona globale della storia. Era ancora il George che stava a pigione dalla signora Fulloway e che sentiva la nostalgia di casa dopo aver attraversato il mar d’Irlanda con un altro ragazzetto di belle speranze, tale Eric McMordie. Uno che non diventò mai un campione.
Ora George riposa insieme alla mamma e al papà in una tomba uguale a tante altre nel cimitero di Roselawn, fuori città, dove qua e là sulle lapidi spicca il simbolo dell’Ulster Volunteer Force, uno dei gruppi paramilitari protestanti più attivi durante i Troubles.
Il suo fisico, ormai distrutto dagli effetti dell’alcool, smise di resistere il 25 novembre di 10 anni fa al Cromwell Hospital di Londra. Prima di morire Best chiese di poter mangiare un gelato, ricordando quelli che divorava da bimbo da Desano. Quando una settimana dopo tornò a Belfast, a rendergli omaggio per le strade c’erano 100mila persone sotto un cielo plumbeo come non mai. Anche se non ufficialmente, il suo fu un funerale di stato, celebrato nel Castello di Stormont, ex sede del Parlamento nord-irlandese e da sempre considerato dai cattolici uno dei simboli del potere lealista.
Ora la città sembra essersi “riappropriata” di uno dei suoi figli più celebri. Gli è stato intitolato uno dei due aeroporti e se scambiate una chiacchiera in un pub o in un taxi prima o poi qualche aneddoto spunta fuori. A noi è capitato proprio con il tassista che ci portava a casa Best. “Sai, mio padre ha delle scarpe che ha usato George, gliele ha date Dickie un giorno di tanti anni fa. Non le darebbe via per tutto l’oro del mondo!”.