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 2015  novembre 21 Sabato calendario

Il caso di Godfred Donsah, che s’è dovuto abituare a giocare a calcio con le scarpe

A sentire Donsah, anni 19, sembra di parlare con un quarantenne. La vita ti segna e a volte ti fa maturare prima del tempo, e su questo ragazzo ghanese di Accra, che dal 2011 vive in Italia e da quest’anno gioca a Bologna, è passata con la leggerezza di un carrarmato. «Sono arrivato qui a 15 anni per provare a sfondare nel calcio e sfuggire alla fame. Mio papà era scappato dal Ghana 4 anni prima, come clandestino: ci mandava dei soldi, ma non l’avevo più sentito né visto. È stata l’Italia a farci ritrovare. E a dare dignità alla nostra vita». Una vita che merita di essere raccontata, questa di Godfred Donsah.
Da dove vuole cominciare?
«Da mio padre, Twaku Tachi, che era scappato dal Ghana nel 2007: c’erano qua dei suoi amici e gli dicevano che in campagna c’era lavoro. Da noi, zero. Si spaccava tutti i giorni la schiena nei campi di coltivazione di cacao ma non riusciva a mantenere la famiglia: mia mamma, me e le mie tre sorelle. C’era poco da mangiare, non poteva farci studiare. Papà ha rischiato, perché se non hai soldi un viaggio del genere lo puoi pagare con la vita».
Che viaggio ha fatto?
«Ha camminato una settimana nel deserto per arrivare in Libia: mi ha raccontato di aver visto alcuni suoi amici morire, e lì se uno sta morendo devi lasciarlo andare, perché se ti fermi muori anche tu. È partito con un litro di acqua in cui aveva messo molto sale, per evitare di bere troppo. Hanno incontrato i predoni, per fortuna non avevano niente. Poi, dalla Libia, hanno preso una barca. Mica i barconi che si vedono in tv, per quelli ci vogliono i soldi. Sono saliti in venti su un piccolo gommone, uno è caduto in mare... Ci hanno messo nove giorni per arrivare a Lampedusa. Quando dopo un mese ha telefonato per dirci che era vivo, siamo scoppiati tutti a piangere: avevamo pregato molto, non sapevamo che fine avesse fatto. A me tutto questo l’ha raccontato dopo quattro anni, quando ci siamo rivisti. Io per tutto quel tempo non l’ho mai sentito: quando telefonava ero sempre a giocare a calcio».
Come funziona il calcio nel suo Paese?
«Si gioca ogni giorno nei campi sterrati, 11 contro 11, con 20 persone fuori pronte a entrare; se c’è uno ricco che porta il pallone bene, altrimenti non si gioca. E poi lo si fa scalzi; quando sono arrivato a Palermo e Acquah mi ha regalato il primo paio di scarpe, per un mese mi hanno fatto male i piedi! Ci ho messo un po’ a riacquistare sensibilità col pallone... In Sicilia sono arrivato nel 2011 grazie al mio procuratore, Olivata, e a uno italiano, Paolo Busato: avevano organizzato dei provini in Ghana e li avevo passati».
Anche la vita italiana di suo papà è iniziata dalla Sicilia...
«Sì, l’hanno tenuto a Lampedusa una settimana, poi è andato a Napoli, dove ha trovato rifugio in una casa di clandestini: si arrangiava con qualche lavoretto. Ogni tanto cambiava città, non è facile per chi è irregolare, i carabinieri ti stanno sempre dietro. Quando sono arrivato io in Italia, lui non lo sapeva. Ho iniziato a Palermo ma ho fatto un anno e mezzo senza giocare, perché avevo solo il visto. Infatti dopo sei mesi sono dovuto tornare in Ghana, poi mi hanno riportato in Italia e finalmente sono riuscito a contattare mio papà. Quando gli ho detto che ero qua non ci credeva: “Per giocare a calcio? Ma sei sicuro?”, continuava a chiedermi».
Chissà che emozione, quando vi siete rivisti!
«Soprattutto per lui: mi ha lasciato bambino e mi ha ritrovato uomo. Io mi emoziono tanto quando vado in Ghana: adesso sono sereno, ma ogni volta che vedo mia mamma piango come un bambino. Lei è rimasta in Ghana perché le mie sorelle studiano là, non vedo l’ora che arrivi gennaio perché verrà un po’ qui a Bologna con me. Però non vuole vivere in Italia, dice che fa troppo freddo...».
E suo papà?
«Adesso è in Ghana anche lui, per riposarsi un po’. Ha avuto una vita dura, anche qui in Italia. Come raccontavo prima, non riusciva nemmeno ad avere il permesso di soggiorno. E di conseguenza non potevo ottenerlo io, dato che ero minorenne. Ci voleva un miracolo, come disse il mio procuratore. Hanno portato papà da Verona, dove nel frattempo si era trasferito, a Como, dov’ero andato ad allenarmi. Lì gli hanno dato un lavoro come magazziniere e lo hanno messo in regola, così abbiamo sistemato tutto e ho potuto essere tesserato. Ci ha aiutato tantissimo Sean Sogliano: mi aveva visto a Palermo, poi quando è andato all’Hellas mi ha voluto lì. Ricordo l’emozione della prima gara coi documenti in regola: vittoria per 1 a 0 contro la Primavera del Milan».
È lì che è iniziata la sua carriera, vero?
«Sì: mi allenavo con la prima squadra e giocavo con la Primavera, finché Mandorlini mi ha dato una chance e mi ha buttato dentro contro l’Atalanta (il 19 aprile 2014, ndr). Che paura: cinque minuti prima di entrare, mentre mi scaldavo, ho iniziato a vedere tutto buio per la tensione! So che in Serie A non è facile, bisogna ragionare prima di avere la palla. Però sapevo anche che bastava fare quello che faccio ogni giorno in allenamento, così mi sono calmato ed è andata bene. Ogni giorno prego Dio di avere questa opportunità di giocare, anche solo un minuto. Non dimentico da dove sono arrivato».
Quand’è arrivato che cosa sapeva dell’Italia?
«Niente. Se non che se uno gioca qui è un vero professionista. Sono amico di Acquah, quando tornava in Ghana lo accoglievano come un idolo. Da noi c’è il mito del calcio italiano: se per esempio Acquah viene a fare una partitella alle 8, alle 5.30 non trovi già più posto. Tutti i bambini, da noi, sognano di diventare calciatori. Per fortuna negli ultimi anni hanno creato qualche accademia».
Lei è riuscito a frequentarne una?
«Sì, quando avevo 7 anni sono stato chiamato dagli osservatori del DC United di Agogo. Mia mamma mi incoraggiava, le mie sorelle mi sgridavano perché non portavo soldi a casa: il sabato dovevo andare con loro a lavorare nelle piantagioni di cacao, invece non mi facevo vedere perché avevo le partite... Adesso che pago io l’università delle mie sorelle, ogni tanto dico loro ridendo: “Vi ricordate quando mi dicevate che non portavo un euro a casa? Ora che cazzo volete da me?”».
E lo studio?
«Ho smesso a 7 anni, perché ho investito tutto sul calcio. E poi soldi per andare a scuola non ce n’erano. A Verona Sogliano mi ha fatto studiare, io mi concentravo solo sui numeri perché voglio saper leggere i contratti. Ma erano più le volte che non andavo. Un giorno mi ha beccato e mi ha tolto 200 euro dallo stipendio...».
Sogliano è stato un secondo padre per lei, vero?
«Sì, è fantastico! Quando sono arrivato non avevo un soldo, mi dava 100-200 euro ogni settimana. Devo ringraziare tanta gente in ogni squadra in cui sono stato: prima di essere tesserato non avevo un contratto, perciò niente stipendio. A Verona, per esempio, Maietta, Cacia, Agostini e Muras mi hanno aiutato tantissimo. Quando c’era un premio partita, la metà la davano a me. E ogni volta che andavo in Ghana facevano una colletta perché portassi dei soldi alla mia famiglia. Ho trovato un ambiente pazzesco. Perciò adesso cerco di restituire tutta la fortuna che ho avuto; quando vado in Ghana porto vestiti e mille, duemila euro che distribuisco alla gente per strada: a me non cambiano la vita, agli africani sì. Poi, avendo un contratto con la Puma, mi faccio pagare in scarpe e le porto ai ragazzini che giocano per strada. E ogni mese faccio delle donazioni. L’Italia mi ha insegnato molto, è un Paese davvero ospitale».
Lei comunque l’ha vissuta da privilegiato...
«È vero, ma ho amici ghanesi che non fanno i calciatori e sono stati aiutati quanto me, hanno avuto vitto e alloggio gratis in attesa di trovare lavoro. C’è tanta brava gente, in Italia».
Ma ce n’è anche tanta che non ne può più di tutti gli immigrati che vengono qui a cercar lavoro perché di lavoro non ce n’è neanche per gli italiani. Lei che cosa pensa?
«Che hanno ragione. Faccio un esempio stupido. Se ho una casa e ogni sera viene uno col suo materasso e si ferma a dormire, senza chiedere il permesso, e poi magari chiama gli amici, a un certo punto mi arrabbio. Non ci sto più io, in casa mia, e non è giusto».
E che cosa prova quando vede in tv gli sbarchi degli immigrati?
«Mi si spacca il cuore».
Secondo lei l’Italia è un Paese razzista?
«Ma anche il Ghana è razzista! Cosa credete: là c’è negro e negro. Adesso che sono Donsah, per esempio, è diverso, perché sono visto come uno che ce l’ha fatta. Però sapete quante volte nel mio Paese mi hanno detto “Oh, negro di merda”! E comunque, chissenefrega: certo che sono negro, lo so anch’io. Mica posso fare qualcosa per diventare bianco! E se poi qua in campo mi tirano le banane, io le mangio. Dopo tutto quello che ho passato, pensate che possa arrabbiarmi per qualche banana?! Io vado avanti per la mia strada».
Guardando appunto avanti: tornerebbe un giorno a vivere in Ghana?
«Sì. Mi mancano molto la famiglia e i miei amici. Loro mi vedono in tv, ma io non li vedo mai. Ogni volta che torno è una grande, lunghissima festa».
E quando torna che cosa le manca di più dell’Italia?
«La pasta! Mi fa impazzire: quando sono arrivato qui la prima volta ne ho mangiata talmente tanta che dopo due mesi ero così grasso che non riuscivo neanche a correre. Brutta roba, la fame...».