il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2015
Intervista a Luca Carboni, il cantante che non credeva di aver talento
La storia di Luca Carboni sembra perfetta per una sceneggiatura hollywoodiana, una di quelle da happy end, da sorrisi e abbracci, vogliamoci tutti bene, i sogni si possono realizzare, basta crederci. Eppure è vera. “Una sera del 1983 mi decido, prendo il mio materiale e arrivo all’osteria da Vito, dove sapevo che tutti i grandi del momento si ritrovavano”. Lucio Dalla, Gianni Morandi, Francesco Guccini, gli Stadio, altri amici, e ancora.
“Sbircio da una finestra, erano lì seduti. Anzi, Lucio e Gaetano (Curreri) ragionavano sui testi del nuovo album e sul fatto che gli mancava qualcuno giovane, con un linguaggio nuovo. Respiro, decido cosa dire, come presentarmi. Varco la soglia, entro nella stanza e gli do il materiale”. Il giorno dopo era già in studio con loro.
Sono passati 32 anni, 11 album di inediti nel curriculum, l’ultimo, Pop-up è un successo, il singolo Luca lo stesso è disco d’oro e una presenza perenne nelle radio, ma per l’intervista ha fissato l’appuntamento proprio da Vito, tra una bottiglia di Sangiovese della casa, tortelli, tovaglie di carta, gli amici. Qualcuno passa e gli fa i complimenti, l’oste ride, lui si stringe tra le spalle e quasi a giustificarsi, ammette: “Non pensavo andasse così forte il primo singolo, ci credevo. Ma non pensavo”.
Come mai?
Il pezzo parte con dei concetti un po’ forti, la frase sul confine, o quella sui figli che possono nascere anche da due che si odiano. Temevo qualche polemica, anche politica. Però il ritornello è molto solare. E radiofonicamente è arrivato.
Lei non ha mai partecipato alla vita politica.
No, anzi. Credo che la mia generazione, cresciuta in un mondo in cui le famiglie si dividevano tra comunisti e democristiani, doveva lavorare per buttare giù le barriere.
Però suonava alle feste dell’Unità.
Sì, eccome. E da un certo punto di vista mi mancano, anzi mancano in assoluto: sono state una grande scuola, al di là dell’aspetto politico, erano uno degli appuntamenti più importanti dei tour estivi, un punto di riferimento. Il bello era che d’estate ogni città, ogni paese aveva la propria, e davano la possibilità di esibirsi anche a chi non era conosciuto.
Il pubblico partecipava perché c’era la garanzia della Festa.
Esatto. Però non amavo l’idea che la musica fosse legata a un partito. Comunque il disco sta andando bene, sono felice e stupito.
Davvero non se lo aspettava?
No, perché stiamo vivendo un momento nel pop dove l’attenzione è sui giovanissimi e sui mostri sacri come Vasco, Ligabue e Jovanotti… Quindi è difficile per un artista della mia età avere certi spazi, nulla è scontato.
Non si sente un “mostro sacro”?
Assolutamente, ho sempre guardato certe situazioni con disincanto.
Eppure Jovanotti lo hai rilanciato lei con il tour del 1992.
L’ho solo sdoganato, in quel periodo non era molto amato dai giornalisti, poi ha proseguito da solo.
In 32 anni e passa di carriera ha vissuto molti up e altrettanti down artistici.
Vero, ma non mi sono mai preoccupato più di tanto. I primi dischi li ho realizzati con la convinzione che tanto avrei smesso presto, che avrei fatto l’autore per altri. Insomma, il successo è arrivato, non l’ho cercato.
Questione di carattere?
Avevo una band, volevo solo suonare con loro, vivere di musica, scrivere, non cantare, non volevo stare in prima fila sul palco.
Niente smanie da riflettore.
No. A 21 anni ho registrato il mio primo album, solo perché Lucio Dalla ha insistito, era lui a vedermi nel ruolo di cantante.
E come la convinse?
Sempre nel 1983: eravamo in studio e mi ha registrato di nascosto mentre provavo dei pezzi per gli Stadio; poi mi ha chiamato in regia e mi fatto riascoltare. Pensai: cazzo, ma è bella la mia voce.
Un precario della musica.
Ma sì. E ci penso ancora oggi quando vedo i talent e ascolto questi ragazzi di 16 anni, alcuni sono tecnicamente dei mostri. Bravissimi. Preparati. Mentre io non avevo mai cantato in vita mia.
In un talent, quale pezzo avrebbe portato?
Non sarei mai passato alle selezioni, e poi non sono capace a suonare le cover, ho un’estensione vocale che mi permette di cimentarmi solo su brani di Guccini o De Andrè. Come estensione vocale sono uno dei meno dotati della musica italiana, ho due ottave.
Insomma, è ancora stupito.
La vera sorpresa è stata quella di aver un successo così grande in proporzione alla mia scarsa ricerca per ottenerlo. E infatti al mio terzo disco, quando ho venduto più di Lucio, lui non è stato così contento.
Le ha mai manifestato il suo fastidio?
Avevamo il posto vicino allo stadio e quando si avvicinavamo le ragazzine per chiedermi l’autografo, se ne usciva: ‘Guardate che non è bello’. Un po’ scherzava, un po’ gli rodeva.
Lei come ha reagito al successo?
Mi sono detto che dovevo cambiare vita, accettarlo. Ma sempre con un pizzico d’incoscienza.
Ora che ha superato i cinquant’anni, quell’incoscienza è stata sostituita da consapevolezza?
Beh, negli ultimi dieci ho molto rallentato.
Come mai?
È stata una scelta di vita dopo che è nato mio figlio, non volevo andare in giro e mostrargli che ero famoso, mi dava fastidio. Adesso che è grande, fa piacere anche a lui.
Suo figlio suona?
Il pianoforte, ma non l’ho mai sentito cantare. Non ascolta canzoni, ama la classica, le colonne sonore, roba strumentale, epica. Però questo è il mio primo disco che ha visto nascere.
Non è mai stato a Sanremo.
Neanche come ospite. Mi ha sempre generato paura, e poi all’inizio non mi sentivo adatto, giocarsi tutto in tre minuti… Pensavo: oddio, magari vado e ho il mal di gola. Però me lo hanno proposto tutti gli anni dal 1983.
Colleghi come Vasco e Ramazzotti lo hanno affrontato…
Eros è andato al posto mio. Quando registrai il mio primo album, e il singolo era Ci stiamo sbagliando, la Rca disse a Lucio: ‘Vorremmo provare Sanremo con Luca’. Poi invece arrivò Ramazzotti con Terra promessa e presero lui.
Dalla era un po’ il suo produttore…
Aveva una clausola sui miei primi tre dischi. Alla fine del terzo andò alla Rca e gli disse: ‘Io di Carboni ve ne trovo quante ne volete’, e ottenne un corposo budget per costruire una casa discografica a Bologna e investire sui giovani. Però, alla fine, di vero successo, l’ha ottenuto solo con Samuele Bersani.
Ce n’erano altri bravi?
Angela Baraldi, però dopo ha preferito la carriera di attrice. Insieme abbiamo anche frequentato un corso di recitazione.
Carboni, attore?
No, era solo per stare su un palco. E poi avevo molte richieste per film, specialmente dal secondo album in poi. Mi venne a cercare Monica Vitti, mi voleva come protagonista di un film con lei.
Ha detto di no alla Vitti?
Per convincermi iniziò a venire in camerino, a telefonare a mia madre. Ma il film era veramente brutto.
Il corso di recitazione l’ha aiutata per vivere il palco?
L’ho frequentato poco, appena sei mesi invece di tre anni. E poi ero sempre in tournée.
Ma le piace il palco?
Quando canto, molto. Ma l’ho scoperto nel tempo. All’inizio no, mi angosciava la folla, e non ero neanche capace nel gestire la voce: la perdevo dopo la prima data, cantavo solo di gola, e il resto del tour erano solo figuracce.
La soluzione?
Un doppio corso di canto. Ora il palco è diventato la mia casa, anche se nei concerti non è che mi invento qualcosa di eclatante.
Non è un frontman da corsa in lungo e largo…
No, però amo realizzare la regia e la scenografia dei tour. Così sento il palco ancor più mio.
Piero Pelù ha dichiarato al Fatto: “Da giovane, prima di un concerto, bevevo e fumavo. Da grande ho smesso, maggiore sicurezza, e le mie performances sono migliorate”.
Allora era tipico tra i colleghi. Forse il palco mi terrorizzava proprio perché non utilizzavo nulla…
Torniamo al cinema: altre proposte?
A suo tempo sono stato contattato, e più volte, da Ozpetec, mi voleva come protagonista del Bagno turco, poi presero Alessandro Gassmann. Ma la questione andò avanti per mesi. Non me la sentivo, non ho neanche la dizione, parlo in bolognese.
Secondo lei esiste una scuola bolognese?
No, sono tutte individualità, magari amici, ma non si va oltre. Le uniche scuole sono quella napoletana e genovese. Ora va di moda il Salento, ma basta così.
Anche Guido Elmi, storico produttore di Vasco, ha più o meno la stessa sua convinzione.
Con Guido ho avuto un’esperienza fantastica, e ancora ci ridiamo insieme. All’epoca, e siamo sempre nei primi anni Ottanta, era esploso Vasco prodotto proprio da Guido. Stava per uscire Bollicine. Nello stesso momento iniziamo a lavorare sul mio album, ma non ero convinto dei risultati con Dalla, temevo la sua produzione, temevo mi imponesse il suo suono, temevo la presenza degli Stadio come band. Insomma, non volevo sembrare un Dalla di serie B.
E quindi?
Arriviamo a discutere, ma tanto, così gli dissi: basta, rinuncio. Allora Lucio decise di compiere un passo indietro, e chiamò Guido per fargli ascoltare il mio lavoro. ‘Ti mando una cassetta’, e Guido: ‘No, preferisco dal vivo’. Gli suonai tutto l’album al pianoforte, alla fine dell’esibizione, la sentenza: ‘Sei la brutta copia di Gianna Nannini, non andrai da nessuna parte’.
Le arrivano molti provini di aspiranti cantanti?
Pochissimi da quando ci sono i talent, non mi mandano quasi più nulla. Ci sono altre strade e altri parametri, altri modi per raggiungere gli obiettivi.
E non ci si apposta più fuori da un ristorante con i sogni sotto il braccio.