il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2015
Quei detenuti malati di mente dimenticati in quegli Opg che non chiuderanno mai
Un’ombra appare all’improvviso da un luogo buio, con le finestre coperte alla bell’e meglio da un panno arancione. Dall’oscurità, poco alla volta, affiora il volto di un uomo: anziano, diresti, con quelle rughe indefinibili che regala la sofferenza. Guarda negli occhi, non abbassa mai lo sguardo. Con compostezza, senza voglia di sfide, con grande dignità. Anche se la sua bocca è impastata, anche se non riesce ad articolare la lingua e la voce esce flebile, “sono 36 anni che le mie gambe sembrano pietre – sussurra –. Non ho perso la speranza finora, ma ci vorrebbero motivazioni forti per continuare a sperare. E io non ne ho più. Ho una figlia, fuori di qui, fa parte di Libera, va in giro a fare comizi contro la mafia. Sono orgoglioso di lei”. Fa una pausa, per un secondo interminabile abbassa lo sguardo. “No, non viene a trovarmi: lei la farebbe venire una figlia qui?”.
Quest’uomo era un fiancheggiatore della mafia, ha alcuni omicidi sulla fedina penale, ma il posto in cui è recluso dal 2013 (dopo aver già scontato una lunga pena) non è un carcere. È un Ospedale psichiatrico giudiziario, quello di Reggio Emilia per la precisione. E questo non è un vecchio reportage rispolverato, è la cronaca di quanto accade oggi, nel mese di novembre 2015, in un Paese che ha chiuso gli Opg in fretta e furia alla fine di marzo, condannato dall’Europa e dall’opinione pubblica, salvo poi dimenticarsi di aprire le Residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria (Rems) ove spostare gli internati. Con un paradosso maggiore: dei sei Opg presenti sul territorio nazionale (Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Castiglione delle Stiviere, Napoli, Aversa, Barcellona Pozzo di Gotto), l’unico a essere stato chiuso (in realtà banalmente trasformato in Rems, è bastato sostituire una targa) è quello di Castiglione, nel Mantovano. L’unico che al posto delle celle aveva già camere ospedaliere, al posto delle sbarre aveva locali per le attività ricreative e, al posto dell’isolamento, i colloqui quotidiani con le famiglie. Così, di fatto, dopo la tanto sbandierata norma che ha reso gli Opg fuori legge, nessuno di questi inferni dimenticati ha mai chiuso davvero i battenti. A distanza di otto mesi, ci vivono ancora 234 persone per le quali il giudice ha deciso di applicare l’articolo 222 del Codice Penale: ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario. Sono stati riconosciuti malati di mente nel momento in cui hanno commesso un reato, anche grave. Li chiamano “internati”, perché chiamarli persone darebbe loro una dignità che lo Stato non può garantire.
Come un uomo di 50 anni, il “ragazzino” è il suo nome qui, che è entrato 25 anni fa: non ha spacciato, non ha rubato, non ha ucciso, ma non è mai uscito di galera. La sua storia ha fatto il giro d’Italia nel 2011, quando l’allora commissione parlamentare guidata dall’ex senatore Ignazio Marino denunciò la vergogna italiana degli Opg. Avrebbe dovuto scontare cinque anni, ma l’atteggiamento aggressivo nei confronti della polizia penitenziaria ha fatto sì che il giudice prorogasse il suo “soggiorno”. Perché è così che funziona, è così che si annulla la vita delle persone. Anzi, degli internati. Un giudice ne valuta la salute psichica, verifica se le cure hanno fatto effetto e, poiché quasi mai questo accade, ne proroga la detenzione. Adesso a Reggio Emilia quest’uomo si comporta bene, non aggredisce più nessuno e comincia a sperare di poter uscire. “Siamo diventati amici – sorride il comandante della penitenziaria, l’ispettore capo Vito Bonfiglio –. Ho passato tutta la vita negli Opg e se tornassi indietro lo rifarei. Perché qui si crea un rapporto speciale con le persone, non è come con i detenuti normali. Questi sono soggetti che hanno bisogno di aiuto”.
Il reparto Centauro è un reparto chiuso: vuole dire che le celle si aprono dalle 9 alle 11 e dalle 13,30 alle 18. Ma non per tutti. Un ragazzo di 20 anni, reo di aver tentato più volte di aggredire la famiglia, non vede il corridoio. Giace sul suo letto avvolto in una coperta di lana, di quelle che si vedono nei peggiori film sulle carceri. Quando è necessario pulire la sua cella, lo devono tenere fermo in tre e i pasti gli vengono serviti attraverso le sbarre. La coperta è indispensabile, perché – a differenza di quanto accade negli uffici della direzione – qui fa un freddo cane. “Tengono i termosifoni al minimo, per risparmiare” ci confida una voce interna.
In un’altra cella chiusa c’è un uomo sulla cinquantina, i baffi lunghi come andavano di moda negli anni Settanta. Sono sei mesi che è recluso a Reggio Emilia. “Vengo da Castiglione – ci racconta – ho già scontato 10 anni. Ma almeno prima vedevo tutti i giorni la mia famiglia. Ero riuscito a ricucire i rapporti con la mia compagna e con mia figlia adolescente. Venivano sempre, potevo mangiare con loro e partecipare a tutte le attività rieducative. Godevo di licenze e permessi premio. Da quando sono stato trasferito non ho più visto nessuno, né sono mai uscito. Dicono che il magistrato di sorveglianza abbia troppo lavoro per occuparsi di noi”. In questo inferno dimenticato nessuno ha il tempo di rispondere alle istanze dei detenuti. Sulle scrivanie dei giudici giacciono inevase montagne di istanze. A Reggio hanno fatto uno sciopero della fame di sei giorni, ma non se li è filati nessuno. E siccome è gente che non ha soldi sufficienti per pagare un buon avvocato, l’unica figura che tiene i rapporti con l’esterno rimane il parroco, don Daniele, un uomo di Dio che la settimana scorsa si è fatto carico di andare a parlare col magistrato di sorveglianza.
Nell’Opg non c’è nessun emiliano, perché almeno l’Emilia Romagna ha attivato alcune Rems provvisorie, a Bologna e a Parma. Gli internati, 21 in tutto, provengono dalla Lombardia (5) e soprattutto dal Veneto (16), la Regione che sembra più indietro d’Italia nel realizzare le nuove strutture. “È da aprile che ci chiediamo che fine faremo – racconta uno di loro – ci hanno parlato di giugno dell’anno prossimo”. Che, se mai fosse vero, significherebbe tredici mesi dopo l’entrata in vigore della legge. “Se ci sentiamo di serie B? Magari – commenta un altro internato –. Sarebbe un onore”.
La partita è nelle mani delle Asl, non più del ministero della Giustizia. Due settimane fa il sottosegretario alla Sanità, Vito De Filippo, incontrando il comitato StopOpg ha annunciato l’invio di lettere di diffida alle otto Regioni (oltre il Veneto, Piemonte, Toscana, Abruzzo, Lazio, Campania, Calabria e Puglia) che non hanno ottemperato al proprio dovere. “Si tratta – ha spiegato – di un atto preliminare al commissariamento”.
Come se non bastasse, negli Opg esiste un problema nel problema. Li chiamano 148, come l’articolo del Codice Penale: sono coloro ai quali l’infermità psichica è sopraggiunta durante la detenzione. Sono stati dichiarati incompatibili col regime carcerario, ma per loro le porte delle Rems non si apriranno mai. Non è previsto. Quindi rimangono nell’Opg, per ora, e torneranno probabilmente in casa circondariale se e quando l’Ospedale verrà chiuso davvero. A Reggio sono 47, e già adesso lamentano la carenza del personale sanitario, che – con i primi trasferimenti degli internati – è stato ridotto. È come se ci fossero, dunque, i dimenticati più dimenticati degli altri.
Quale sarà il futuro di tutte queste persone è difficile dirlo. Il Fatto Quotidiano ha provato a farsi aprire le porte della Rems di Bologna, ma senza esito. Troppe visite disturbano i pazienti e gli operatori, ci è stato detto. Sarà vero. Avremmo voluto, però, rispondere alla domanda che si pone il Direttore della casa circondariale e dell’Opg di Reggio, Paolo Madonna: “Se è vero che nessuno può essere realmente curato in una struttura carceraria, nei casi di soggetti pericolosi come è possibile garantire la sicurezza in una Rems che può contare solo su due guardie giurate all’ingresso?”.
Prima di uscire raggiungiamo un gruppo di internati che sta giocando a carte: “Ci giochiamo la nostra libertà. Tu quanti punti hai fatto?”.