il Fatto Quotidiano, 23 novembre 2015
Chi fornisce le armi all’Isis. Dalla Lockheed Martin alla Finmeccanica
L’amministratore delegato di Finmeccanica, qualche giorno fa, ha dichiarato che la sua azienda “non si pone il problema di fare affari con i Paesi arabi da cui partono finanziamenti verso l’autoproclamato Califfato”. “Noi parliamo – ha detto Mauro Moretti – con i i governi di paesi che non sono sulla lista nera”.
L’italiana Finmeccanica, così come le analoghe società occidentali, farebbero invece bene a preoccuparsi dei paesi con cui fanno affari. Perché se quei paesi fanno la fine di Siria o Iraq gli effetti sono tragici proprio sul fronte del commercio d’armi.
Per rendersene conto si legga il rapporto realizzato dal Conflict Armament Research (Car), una struttura finanziata dall’Unione europea e che ha condotto sul campo un’indagine molto interessante. Con il Dispatch from the Field, il Car ha analizzato un campione di munizioni dello Stato islamico in Iraq e in Siria. Munizioni prelevate nei campi di battaglia della regione curda del nord Iraq e nel nord della Siria tra il 22 luglio e il 15 agosto del 2014.
Le tracce lasciate sul terreno
In Siria il Car ha lavorato insieme alle unità militari dei curdi del Ypg per raccogliere munizioni utilizzate nel corso dell’offensiva di Kobane e Serekani. In Iraq, invecel’appoggio è stato fornito dai Peshmerga, le forze regolari del governo regionale curdo. L’analisi ha il pregio di offrire elementi concreti circa il supporto, diretto o indiretto, degli stati occidentali e orientali (come vedremo Russia e Cina sono in primo piano) all’Isis. Questo accade soprattutto per effetto dello sfarinamento degli eserciti iracheno e siriano o per il passaggio di settori di questi nel campo dei combattenti. Ma le responsabilità sono anche più ampie.
Le munizioni analizzate dal Car provengono da 21 paesi dei quali i primi cinque sono Usa, Russia-Unione sovietica (a seconda dell’anno di fabbricazione), Cina e Serbia. La lista dei 21 paesi, però, vede anche Romania, Bulgaria, Nordcorea, Turchia, Iran, Germania, Polonia e Sudan, il cui ruolo di fornitore di armamento militare a parti impegnati in conflitto, è visto come “crescente”.
I rifornimenti sono frutto di legami storici, il fronte orientale legato alla Siria, gli Usa legati all’Iraq. Ma si verificano casi emblematici delle connessioni internazionali come gli armamenti forniti dalla Russia e commercializzati dalla società Usa Sporting Supplies International che utilizza il marchio Wolf “ampiamente distribuito dagli Stati uniti agli alleati della regione”. “L’Isis, si legge nel rapporto, ha utilizzato quantità significative di queste munizioni in Iraq e Siria”. Quando si dice, quindi, che “li armiamo noi” si dice una cosa verificabile concretamente.
Il fatto è che il Medioriente è diventato uno dei luoghi a più alta concentrazione di armi. Di tutti i tipi, da quelle leggere a quelle pesanti e pesantissime. Secondo il rapporto annuale del Sipri, il più accreditato centro di ricerca indipendente con sede a Stoccolma, il flusso di armi verso l’Africa e l’Asia è cresciuto nel periodo 2010-14 rispetto al quiquennio 2005-09, del 16%. A fare la parte del leone sono ancora i paesi dell’Asia e dell’Oceania ma ci sono importanti incrementi nelle importazioni del Medioriente dove si trovano due paesi collocati tra i primi cinque importatori di armi: l’Arabia Saudita e gli Emirati arabi uniti.
“La significativa crescita delle importazioni in Arabia saudita” spiega il rapporto, “e il suo balzo al secondo posto dei paesi importatori è davvero degno di nota”.
Cinque paesi tengono il banco
Così nel 2014 se i primi cinque esportatori coincidono con i paesi maggiormente influenti nel Consiglio di sicurezza Onu (Usa, Russia, Cina, Germania e Francia, nell’ordine), in grado di controllare il 74% del traffico globale, i primi cinque importatori vedono saldamente l’India al primo posto, con il 15% del totale, seguita dall’Arabia saudita e dalla Cina (5%), poi dagli Emirati arabi uniti e Pakistan (4%).
Il dato è ampiamente confermato dal Global Reported Arms Trade, il registro del commercio di armi tenuto dall’Onu. In una quantità a volte inestricabile di numeri e flussi, si legge che il 43% delle importazioni globali di missili riguarda l’Arabia saudita e l’11% gli Emirati arabi uniti. Molto preoccupante è il numero di carri importate in Iraq, quasi il 10% del totale, di poco inferiore a quelli importati dallaTurchia (11%). Impressionante la quantità di arsenale detenuto da un altro paese che potrebbe indebolirsi improvvisamente come l’Egitto (dove non a caso il regime di al Sisi è fortemente sostenuto dall’occidente). Qui i pezzi di artiglieria rappresentano il 10% del totale ma anche la quantità di carri e missili è notevole così come è imbottita di armi la Giordania. Poco affidabili i dati di Siria e Iran e, in parte, dello stesso Iraq. L’Onu lamenta da sempre l’indisponibilità dei paesi membri a fornire correttamente i dati e il Sipri nota che “il numero dei paesi che hanno riferito le importazioni ed esportazioni di armi al Registro delle Nazioni unite è diminuito nel corso del 2014”.
Dalla Lockheed Martin a Finmeccanica
Il flusso di armi, quindi, si dirige inesorabilmente, e comprensibilmente, verso una regione infuocata a vantaggio di imprese ormai molto conosciute. La Lockheed Martin, ad esempio, guida la classifica delle vendite con 35,5 miliardi e circa 3 miliardi di utili, seguita dalla Boeing che con “soli” 30,7 miliardi di fatturato genera utili per 4,5 miliardi. In classifica ci sono gruppi di tutti i paesi occidentali, compresa l’Eads europea e al nono posto anche la Finmeccanica con oltre 10 miliardi di fatturato ma solo 98 milioni di utile (dati 2013, fonte Sipri).
L’Italia, dunque. Che in questo commercio gioca un ruolo importante, ottavo paese esportatore al mondo, obiettivo sensibile, particolarmente esposta nel mondo arabo-musulmano. Nel 2014, il nostro paese ha visto un incremento del 23,3% “del valore globale delle licenze di esportazione” per un valore totale di 2,65 miliardi di euro (fonte: Archivio Disarmo). I principali paesi autorizzati all’export sono quelli Ue/Nato ma l’Italia può vantare solide relazioni commerciali con gli Emirati Arabi Uniti (11,5% del totale), Arabia Saudita (6,1) e Oman (5,3). Dato riscontrabile nelle polemiche dei giorni scorsi circa la commessa alKuwait dei caccia Eurofighter per 8 miliardi di euro a opera del consorzio di imprese europee capitanato da Alenia-Finmeccanica. Polemiche a cui si è aggiunto il viaggio di Renzi a Riad.
Dopo la Gran Bretagna, il paese in cui esportiamo di più in termini di valore sono gli Emirati arabi uniti (304 milioni), al sesto posto si trova l’Arabia saudita (162 milioni) e subito dopo l’Oman con 140 milioni.
Tutto questo sembra aggirare il divieto, pure contenuto nella legge 185 sul commercio di armi relativo al trasferimento di armamenti verso paesi che violano i diritti umani. Solo che il divieto, come nota l’Archivio Disarmo, scatta solo in presenza di “violazioni gravi” accertate da organi delle Nazioni Unite o dell’Unione europea o, ancora, del Consiglio d’Europa. Visto quello che è successo, e sta succedendo, vista la friabilità di stati tenuti in piedi, spesso, solo grazie al puntello occidentale, le modalità del commercio d’armi verso le zone più esplosive del pianeta potrebbero essere nettamente riviste. Altrimenti, la prossima volta quello che l’Isis potrà utilizzare sarà semplicemente spaventoso.