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 2015  novembre 21 Sabato calendario

La bufala dell’allarme-attentato corre su Whatsapp. Interviene Renzi. Mamma e figlia finiscono davanti al magistrato

Una bufala o l’effetto virale di una paranoia che ora può mettere nei guai un’apprensiva mamma della Roma bene? Il giallo si risolve in tarda serata ma per tutta la giornata di ieri un messaggio audio, trasmesso via whatsapp, ha gettato nel panico famiglie e scolaresche romane. Un minuto e mezzo di conversazione durante la quale una donna, con tono allarmato, avvisa una ragazzina che «la situazione è più tragica di quello che dicono in televisione. Ci dicono un sacco di bugie: quelli dell’Isis vogliono colpire i giovani e le zone della movida». La stessa donna, con la figlia di 14 anni, avvilita e mortificata per quanto era successo, ha deciso di presentarsi in commissariato di polizia per spiegare: «Non volevo che mia figlia e la sua amica uscissero di casa e ho inventato la storia del pericolo di un imminente attentato». «Per rendere più convincente la richiesta – ha raccontato ancora la signora – ho detto di averlo saputo da una persona che lavora al ministero dell’Interno e che è in possesso di informazioni riservate». Un epilogo quasi farsesco per una storia che aveva costretto persino il premier Renzi ad intervenire per cercare di riportare la calma.
L’AUDIO
La giornata era cominciata con quell’audio di un minuto e mezzo che aveva raggiunto migliaia di giovani. «Non vi dovete spostare verso il centro. Fate passaparola perché quante più persone riuscite ad avvertire tanti più si possono salvare», diceva la donna che indicava come fonte dell’informazione «la mamma di un’amica come che lavora al ministero dell’Interno, dove arrivano notizie che noi non abbiamo». Irritata la reazione di Renzi che ha chiesto immediate verifiche: «per me è procurato allarme», ha detto pubblicamente. Dopo qualche ora sempre il premier decide di registrare un suo messaggio whatsapp, di 16 secondi, per invitare i ragazzi a non cadere nelle «bufale»: «il terrorismo – avvisa – è una minaccia molto seria ma l’isteria non domini le nostre vite».
Nel frattempo si muove la polizia postale. La procura di Roma preannuncia l’apertura di un fascicolo per procurato allarme non appena arriveranno i primi risultati dell’indagine. Risalire a ritroso, nella catena di Sant’Antonio 2.0, è difficile ma non impossibile per la polizia specializzata nella lotta al cyber-crime e al cyber-terrorismo. Più difficile è forse”silenziare” il panico suscitato da un messaggio che, con effetto virale, ha raggiunto migliaia di romani alle prese da giorni con una città paralizzata da continui allarme bomba poi rivelatisi infondati. La Polizia di Stato ha usato, come contromossa, le stesse armi del”virus”: sulle pagine facebook «Una vita da Social» e «Agente Lisa» sono comparsi post che mettevano in guardia rispetto alla”bufala” via whatsapp e che in poche ore hanno ottenuto milioni di contatti.
LA PENTITA
Ma è una bufala studiata a tavolino per seminare volutamente il panico oppure una telefonata registrata in buona fede che ha comunque avuto un effetto terrorizzante? La differenza non è di poco conto, perché in un’eventuale contestazione di procurato allarme è essenziale provare il dolo. Cosa che, invece, non ci sarebbe. Così sembra almeno a giudicare dalle dichiarazioni della mamma in tarda serata. Prima di lei, aveva deciso di rivolgersi alla polizia Lara (nome di fantasia, ndr), la quattordicenne che parla al telefono con la donna che le raccomanda di evitare i luoghi della movida romana in centro e a Ponte Milvio. Accompagnata dalla mamma, ha raccontato ai poliziotti che si trovava con una amica (Angela, altro nome di fantasia, ndr) quando la madre di questa ha voluto avvertire entrambe della «situazione molto più tragica di quella raccontata dalla tv». Le due ragazzine, allarmatissime, hanno prima registrato la conversazione e poi l’hanno inviata via whatsapp ad amici, compagni di classe, conoscenti. Raccomandando loro di fare altrettanto. A confermare la versione è stata poi la mamma di Angela, l’ultima a presentarsi al commissariato per fare «mea culpa».