la Repubblica, 22 novembre 2015
L’altro grande ricercato del terrore: Moktar Belmokthar, mente dell’attentato al Radisson Blu di Bamako
Bamako. «Ecco, guardi lei stesso con quanta ferocia hanno agito gli uomini di Mokhtar Belmokhtar», dice il commissario Denis Coulibaly. Siamo alla morgue dell’Ospedale Gabriel Fauré, dove hanno portato i corpi delle vittime dell’attacco all’Hotel Radisson Blu di Bamako. Nella prima stanza ne contiamo sei, tutti occidentali. Ancora riposano sulle barelle con cui sono stati raccolti venerdì scorso. Mentre solleva il lenzuolo che li ricopre, il commissario scuote silenziosamente il capo. Vicino a uno di essi, leggiamo su un cartoncino imbrattato di sangue un cognome russo. Tutti sono stati giustiziati con un colpo alla testa. I jihadisti hanno sparato a bruciapelo. «A Belmohktar diamo la caccia da anni, ma è più furbo del diavolo. Soprattutto, conosce il deserto come io conosco Bamako, dove sono nato e dove vivo da 53 anni», aggiunge il commissario maliano. Non è soltanto la polizia del Mali a voler acciuffare il “Guercio” o “Marlboro man”, com’è stato soprannominato Belmokhtar per via dell’occhio che perse combattendo contro i sovietici in Afghanistan e per il vasto traffico di sigarette che creò per finanziare la sua jihad. Il leader islamista è anche ricercato da agenti ben più esperti, dell’intelligence francese e statunitense, e non solo per aver per aver rivendicato due giorni fa, assieme ad Al Qaeda nel Maghreb islamico, l’attacco al Radisson che secondo l’ultimo bilancio avrebbe provocato 19 morti, tra cui un’americana, un israeliano, due belgi, sei russi e tre cinesi. Dato per morto più volte, le ultime a marzo nel Ciad e a giugno nel sud della Libia, Belmokhtar comincia la sua militanza negli anni Novanta in Algeria, suo Paese d’origine, nel sanguinario “Gruppo islamico armato”. Nel 2007, una volta diventato uno dei capi di Al Qaeda per il Maghreb islamico, Belmokhtar inizia a imperversare in vari altri Paesi del Sahel, dal Niger alla Libia al Mali. Due anni fa, allontanato da Al Qaeda per la componente troppo banditesca della sua leadership, fonda del gruppo “Al Mourabitoun”, ossia “Coloro che firmano con il sangue”. E nel gennaio 2013 orchestra il micidiale attacco contro l’impianto di gas di Is Amenas, in Algeria, costato la vita a 39 ostaggi stranieri, tra cui tre americani, e a 29 militanti. Da allora, in tutti gli attentati che sferra contro altri impianti d’estrazione algerini o installazioni minerarie del Niger, il modus operandi è sempre lo stesso: presa di ostaggi e uso di più kamikaze, spesso provvisti di cinture esplosive, o comunque di uomini votati alla morte. «Proprio com’è accaduto al Radisson Blu», aggiunge il commissario Coulibaly. «Con i due terroristi responsabili dell’eccidio non è stato possibile negoziare. In questo tipo di presa di ostaggi non c’è un secondo da perdere, perché hai a che fare con jihadisti che vengono solo per uccidere il più gran numero di persone possibile prima di farsi uccidere loro stessi. Venerdì è stata una corsa contro il tempo, e ci sono stati di grande aiuto i droni che c’ha fornito l’ambasciata cinese. Prima dell’ultimo, decisivo blitz al settimo piano dell’hotel sapevamo esattamente dove erano piazzati gli ostaggi e i due terroristi». Dopo anni vissuti da fuggiasco, tra un covo o una cittadina sperduta tra le sabbie, Belmokhtar s’è forgiato un nuovo nome di battaglia: “l’imprendibile”. Ma com’è possibile che questa vecchia conoscenza dei servizi di Parigi e di Washington, sulla cui testa pende una taglia di cinque milioni di dollari, non sia stato ancora snidato o fatto fuori da un missile ad alta precisione? Giriamo la domanda a Gérard, chiamiamolo così, un ex agente dell’intelligence di Parigi che adesso si occupa della sicurezza di personalità francesi all’estero e che incontriamo sulla Collina del sapere, così viene chiamato il monte dove ha sede l’università di Bamako e che sovrasta la città. Dice Gérard: «Per la sua cattura gli americani mettono a disposizione droni sofisticatissimi in grado di riconoscere perfino le tracce dei copertoni sulla sabbia. I francesi, invece, partecipano alla sua caccia infiltrando uomini tra le fila jihadiste. Eppure Belmokhtar è ancora uccel di bosco perché troppo spesso manca la coordinazione tra i due servizi di intelligence o il coraggio per intervenire. Recentemente era stato individuato un accampamento nel deserto, con la moglie e le figlie del leader islamista. Americani e francesi erano certi della sua presenza al 95%. Che hanno fatto? Ebbene, non sono intervenuti». Dalla sua parte, la primula rossa del terrore ha anche la geografia, ossia gli 800 chilometri tra Niger e Mali praticamente incontrollabili, o i 900 chilometri a nord di frontiera con l’Algeria. Senza contare che soltanto 250 chilometri separano il Paese dal Nord della Nigeria, roccaforte di Boko Haram. Di quella porzione di Sahel, Charles ci mostra una mappa dei servizi francesi piena di crocette che indicano i campi di addestramento o i feudi di una ventina di “sceicchi”, tutti potenzialmente nefasti quanto Belmokhtar. Uscendo dalla morgue dell’ospedale Gabriel Fauré, incrociamo il convoglio del presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keita, giunto a salutare i feriti di venerdì scorso. Il presidente ha appena ordinato lo Stato di emergenza nazionale per dieci giorni, e il lutto nazionale di tre giorni, con bandiere a mezz’asta a partire da lunedì. Come se non potesse fare di più per un Paese di nuovo nel mirino dei jihadisti.