la Repubblica, 22 novembre 2015
La storia di Salah Abdeslam, l’unico ancora vivo tra i terroristi del 13 novembre
Bruxelles. La storia dell’uomo a cui il mondo intero dà la caccia, il morto che cammina che l’Is ha deciso di giustiziare per non aver pigiato il bottone della cintura di perossido di acetone e bulloni che gli stringeva la vita la notte di Venerdì 13, è un enigma. Non fosse altro che del martire riluttante Salah Abdeslam, esistono tre biografie. Monche. Come il finale della storia che per lui aveva scritto il Califfato e a cui lui si è ribellato. Una di polizia, una di famiglia, e una delle cose. Due auto in affitto (la Volkswagen Polo e la Renault Clio nere usate dal commando), un kalashnikov, due stanze di albergo, un cartone di pizza, delle siringhe, un sacchetto di madeleine al cioccolato, una carta di credito. Quelle che, insieme alle vite di 130 innocenti, si è lasciato dietro tra il 12 e il 14 novembre. Quando, per l’ultima volta, chi lo aveva recuperato la notte prima a Parigi lo ha visto entrare, da solo, in una strada del quartiere di Laeken dove venerdì notte la polizia belga avrebbe trovato un arsenale di armi ed esplosivi. La “fiche” della Police Nationale francese racconta l’incipit – nato a Bruxelles il 15 settembre 1989 – e l’oggi: «capelli neri, occhi marroni, 1 metro e 75 di altezza». Mostra un ovale rotondo, privo di barba o baffi. Il “morfing”, il possibile dopo: un volto posticcio incorniciato da un casco di capelli lisci e neri e da occhiali da vista dalla grande montatura. Altrettanto laconici gli archivi della polizia federale belga. Una serie di contravvenzioni stradali, precedenti per furto e spaccio. Poco. Cui poco aggiunge la voce di Mohammad, il terzo fratello Abdeslam. Quello che si vorrebbe e si direbbe dritto. Quello rimasto accanto a mamma e papà. E che, lunedì 16 novembre, dopo 48 ore in una cella di isolamento, si affaccia sull’uscio della casa di Molenbeek, qui a Bruxelles, e dice: «I miei fratelli sono normali. Sono nati e hanno studiato qui. Siamo una famiglia». Che piange un morto, Ibrahim, di cui sono rimasti brandelli sull’asfalto di boulevard Voltaire. Che implora un latitante: «Consegnati». E che appena ieri, ancora per voce di Mohammed, dà l’impressione di saperla più lunga di quanto non la racconti. «Mi hanno detto degli amici di mio fratello – dice – che martedì scorso hanno avuto contatti con lui via Skype. Non credo sia lontano da qui. E torno ad invitarlo a consegnarsi». Non fosse altro perché, come raccontano quegli stessi ragazzi alla tv americana Abc, Salah «sta cercando aiuto», si sente «sorvegliato dall’Is», «è preoccupato per la sua famiglia» e «dispiaciuto per non essersi riuscito a farsi saltare in aria», ma vorrebbe ancora «raggiungere la Siria». Già, gli amici. Salah ne aveva molti, a quanto pare. Almeno prima del 13 novembre. Forse per via del bar a Molenbeek – “Les Beguines” – che gestiva con il fratello Ibrahim da due anni, dopo aver piantato un lavoro alla Stib, la municipalizzata dei trasporti di Bruxelles. O, forse, per l’eccellente hashish che si fumava tra quelle quattro mura. Dove si tirava tardi e si rimorchiava. «Ragazze», dicono. Salvo raccontare, ora, che a Salah non dispiacesse poi neppure la scena gay di Bruxelles. I suoi bar. La loro clientela maschile. Che certo non frequentava “Les Beguines”, dove gli omosessuali non potevano entrare «per il rispetto che si deve ad Allah», ma dove, fino al giorno in cui non era sparito (il febbraio di quest’anno) ciondolava spesso Abdelhamid Abaaoud, il «cattivo maestro» dei fratelli Abdeslam, lo studente «modello» del liceo cattolico saint Pierre di Uccle diventato prima rapinatore (nel 2010 è in cella con Ibrahim), quindi psicopatico “comandante” sotto la bandiera nera dell’Is e architetto dell’orrore di Parigi. Venerdì 13 novembre, il piano prevedeva che dei tre amici – Abdelhamid, Salah e Ibrahim – solo il primo dovesse restare in vita. E di quel piano, almeno fino alle 21.20 di quella sera, Salah è pedissequo esecutore. Ha affittato con il fratello le tre macchine del commando. Ha provveduto agli alloggi per l’ultima notte da vivi (un appartamento a Bobigny, due stanze di albergo ad Alfotville). Si è fasciato di esplosivo come gli altri 7 fratelli. Ma quanto poi accade, capovolge appunto l’esito. Muore suicida Ibrahim. Ma muore fulminato dai proiettili delle teste di cuoio anche Abdelhamid, nel raid di Saint-Denis. E tuttavia è ancora difficile capire quando Salah abbia deciso che il suo giorno non fosse ancora arrivato. Su uno dei kalashnikov ritrovati nella Seat nera abbandonata a Montreuill c’è una sua impronta digitale, ma nessuno sa con certezza se, quella notte, Salah abbia davvero sparato. Per certo è al volante della Clio che deve puntare sul diciottesimo arrondissement. Per certo è in quel quartiere che è l’obiettivo su cui deve farsi saltare in aria. Cosa lo frena? Solo lui conosce la risposta. E l’unico modo per averla è prenderlo. Prima che arrivi l’Is.