Corriere della Sera, 23 novembre 2015
Elezioni in Argentina, vince Mauricio Macri. L’ex presidente del Boca Juniors ha saputo sfruttare il tramonto del kirchnerismo
Mauricio Macri appare in testa e dovrebbe essere il prossimo presidente in Argentina. In attesa dei risultati definitivi, gli exit poll nella serata di ieri indicavano varie percentuali e punti di distacco, ma erano tutti d’accordo nel segnalare la vittoria di Macri su Daniel Scioli, il candidato del peronismo e del governo uscente di Cristina Kirchner. Sorpasso dunque rispetto al primo turno del 25 ottobre (Scioli 36%, Macri 34%), ma atteso perché il voto oppositore si è concentrato su chi prometteva la svolta più marcata rispetto al passato.
È la prima volta che gli argentini scelgono il nuovo presidente in un ballottaggio. Ed è stata una campagna più moderna e aperta rispetto al passato, con una forte affluenza: si è visto persino un dibattito tv all’americana tra i due candidati, altro fatto inedito nella politica argentina. Macri e Scioli fanno parte della prima generazione entrata in politica dopo la dittatura militare e sono cresciuti entrambi nell’alveo del «menemismo» Anni 90, che era un peronismo liberista. Poi Scioli è poi rimasto nel Partido Justicialista, diventando il delfino di Nestor Kirchner, mentre Macri ha osato rompere il dualismo peronisti-radicali creando un partito nuovo, il suo attuale Pro, Proposta repubblicana. La mobilitazione dei suoi militanti per il ballottaggio è stata sorprendente. Ben 800.000 rappresentanti di lista in ogni angolo del Paese, ad evitare le frodi per le quali i peronisti sono tristemente famosi. È stato fotografato in un seggio di periferia persino Cristiano Rattazzi, presidente della Fiat locale, parente degli Agnelli che vive in Argentina da molti anni.
Scioli è stato indicato a malincuore da Cristina: non lo ama, ma non aveva scelte perché era l’unico nome della sua area in grado di raccogliere voti. Lo stile accentratore e superbo della «presidenta» ha impedito lungo i suoi due mandati alla Casa Rosada la nascita politica di un successore. Macri invece sembrava condannato alla politica locale, come governatore-sindaco di Buenos Aires, considerato dai più come troppo urbano, snob e ricco per conquistare un Paese intero, dove i destini della politica passano per province lontane, ras locali onnipotenti, un voto di scambio elevato a sistema nelle periferie urbane. L’ex presidente del Boca Juniors, testardaggine tutta calabrese (da dove vengono i suoi avi), ha invece tenuto duro fino ad intuire che il tramonto del kirchnerismo lo avrebbe alla fine premiato, perché persino al trasformismo argentino c’è un limite e la domanda di cambiamento in questo momento è troppo forte. Il suo risultato al primo turno è stato superiore a qualsiasi sondaggio e aspettativa.
Cristina Kirchner esce di scena quasi rassegnata a vedere la fine di un modello – come lei stessa amava definire l’era K, «nacional y popular» – che ha lasciato profondi cambiamenti in Argentina, comunque la si pensi. Dodici anni iniziati quando uno sconosciuto politico arrivato dalla Patagonia e soprannominato il «pinguino», Nestor Kirchner, si trovò tra le mani la sfida di ricostruire il Paese, dopo la grave crisi del 2001-2002 e il default dei tango bonds. Nei primi anni i risultati del suo interventismo sono stati positivi, in termini di crescita economica e aiuti ai più bisognosi. Poi lo statalismo populista ha preso il sopravvento, l’inflazione è esplosa e l’economia si è inceppata. Per non smentirsi, fino all’ultimo, la «presidenta» ha mostrato come interpreta le regole: al momento di votare ha tenuto un comizio di ben 28 minuti elogiando il suo governo e attaccando Macri.