la Repubblica, 23 novembre 2015
Viaggio nella terra promessa dell’economia digitale, dove non esiste stipendio minimo, il welfare è a zero e un algoritmo un po’ orwelliano può licenziarti
LavoratUber di tutto il mondo, unitevi. La terra promessa dell’economia digitale non è almeno in apparenza – l’Eden dei diritti e delle opportunità che si immaginava. Smartphone e app della sharing economy, vaticinavano nella Silicon Valley, avrebbero dovuto cambiare la nostra vita professionale per sempre. Liberandoci dalla schiavitù dell’orario fisso dalle 9 alle 17 e trasformando milioni di ex-dipendenti in imprenditori individuali, padroni di se stessi e del proprio tempo.
Il miracolo però, almeno per ora, è riuscito solo a metà. La gig-economy, il mercato dei lavori “a gettone” prenotati su piattaforme online come Uber, ha fatto boom: 3,6 milioni di americani, secondo Intuit, si sono messi in proprio vendendo i loro servizi su queste vetrine virtuali: centosettantamila proprietari di auto si sono reinventati taxisti a chiamata; 300mila persone sono a disposizione della grande distribuzione attraverso Gigwalk per impieghi saltuari come ispettori di vendite promozionali o manovali riempi- scaffali; ci sono 5mila colf certificate prenotabili su Handy, parcheggiatori a chiamata via Luxe, avvocati a ore (Axiom) e persino fattorini per consegne a domicilio di marijuana (Meadow). E il contagio Usa sta arrivando pure in Europa dove la francese BlaBlaCar (passaggi in auto a pagamento) sta guidando lo sbarco del business nel Vecchio continente.
Il successo però non è uguale per tutti. I consumatori, come dimostra la richiesta per questi servizi, festeggiano. Le aziende – felici per flessibilità e de-sindacalizzazione dei gig-dipendenti – pure. Così come Uber & C. che prelevano una commissione del 20-30% sul loro compenso. Il cerino, tanto per cambiare, è rimasto in mano ai lavoratori. Più liberi, perché possono decidere se e quando accettare le decine di offerte che piovono sul display del cellulare o nella mail. Schiavi però di immense piattaforme digitali senz’anima e senza diritti, destinate a diventare “il bazar di braccia low-cost del futuro” come accusa la National Workers Union Usa. Un laboratorio di precari 2.0, dove non esiste stipendio minimo, il welfare è a zero e un algoritmo un po’ orwelliano può “licenziarti” (cancellandoti dal sistema) se il giudizio dei clienti non è abbastanza alto. Barack Obama ha già messo il dito nella piaga: «Se essere più indipendenti significa faticare a far quadrare i conti di casa, c’è un problema» ha detto preoccupato. E non a caso il mondo futuribile del lavoro online in affitto sta affrontando i questi mesi le sue prime rivolte sindacal-digitali. Ed è diventato uno dei temi più caldi della campagna presidenziale per la Casa Bianca.
Anna Walsh, 34 anni di Seattle, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, è il volto felice di questa rivoluzione. Un anno fa la vita le è crollata addosso. «Mi sono separata e ho capito subito che per star dietro ai miei tre figli avrei dovuto dire addio al mio posto da insegnante a tempo pieno», racconta. È allora che ha scoperto Taskrabbit, una piattaforma che incrocia domanda e offerta di lavoro negli Usa. E ha fatto Bingo: «Mi sono iscritta per gioco, senza crederci davvero. Ho compilato con lo smartphone profilo e competenze. E la mia esistenza è cambiata». Tre giorni più tardi ha accettato la prima offerta arrivata con un “drin” sul cellulare («aiutare a gestire due party per ragazzi a 15 dollari l’ora»). Poi le proposte si sono moltiplicate: «Vado a far la spesa per chi non ce la fa, faccio ripetizioni. Un sogno. Scelgo quando lavorare, ho tempo per i miei figli e alla fine metto assieme 2.500 dollari al mese con un impegno di 30 ore la settimana»., assicura felice.
La flessibilità, nella gig-economy, vale anche per gli stipendi. Quello medio annuo del settore è di circa 30mila dollari, calcola la North Carolina Workers Union. Ma la forbice di guadagni è altissima. L’incasso medio dei lavoratori di Gigawalk – un’app perfetta per chi vuole arrotondare con pochi lavoretti rapidi e volanti – è di circa 200-300 dollari al mese. «Ma chi vuole può mettersene in tasca 5mila» assicura il cofondatore Matt Crampton. Gli autisti di Uber prendono 18 dollari all’ora, come le colf di Handy. Un po’ meno dei 22,48 dello stipendio medio dei dipendenti tradizionali Usa.
Non tutto quel che luccica però è oro. E proprio alla voce entrate sono iniziati i guai sindacali. «Non bisogna farsi ingannare – dice Valerio De Stefano, teaching fellow alla Bocconi ed esperto del settore – Nel lavoro ai tempi di Uber l’onere del welfare è stato spostato sulle spalle del lavoratore». Gli incassi sono al lordo delle tasse. Non esistono ferie pagate, versamenti per la pensione o copertura sanitaria. E le prospettive di carriera sono ridottissime.
Il bicchiere mezzo vuoto della gig-economy, per capirsi, l’hanno raccontato urbi et orbi le migliaia di americani che lavorano su Amazon Mechanical Turk, una piattaforma dove il colosso di Jeff Bezos appalta a terzi una serie di compiti non robottizabili (dall’elaborazione dati alle ricerche via internet). Fatti un po’ di conti, detratti versamenti previdenziali e sanitari, gli iscritti si sono resi conti di guadagnare a volte la miseria di 2-3 dollari l’ora. E sulla catena di montaggio online di Amazon è scoppiata la rivolta, sotto forma digitalissima di una campagna di mail bombing all’indirizzo di Bezos. Grido di battaglia: «Siamo esseri umani e non avatar».
La consistenza dello stipendio è solo la punta dell’iceberg. Il vero nodo dei lavori uberizzati è il controllo maniacale sugli iscritti. Gli algoritmi misurano velocità e frequenza di risposta alle offerte, valutano come e in quanto tempo viene eseguito il compito e analizzano i voti dati dai clienti a ogni singolo intervento. «Creiamo profili matematici per abbinare domanda e offerta e premiare i migliori pagandoli di più» si giustifica Crampton. Sarà. Ma il dubbio legittimo – ha detto Hillary Clinton – è che è dietro all’apparente libertà professionale «si inquadrino come collaboratori senza diritti quelli che in realtà sono dei dipendenti».
Altro che nuovi imprenditori padroni di se stessi: Handy obbliga i suoi iscritti a procedure precise sugli orari in cui recarsi dai clienti e su quando e come usare i loro bagni. Alcune piattaforme li costringono addirittura a usare una divisa. Invasioni di campo che rischiano di essere pagate carissime. «Se devo passare da un padrone reale a uno virtuale – si sono detti in molti – tanto vale che torni dipendente». E così sono iniziate a fioccare i primi scioperi e le prime cause dell’era di Uber. I tassisti di “Big U” sono scesi in piazza per i loro diritti a Los Angeles e Phoenix. L’Oregon ha obbligato l’azienda a trasformarli in dipendenti. Crowdflower, che appalta lavori di data analytics – è pronta a pagare 600mila euro per chiudere una “class action” dei suoi collaboratori che chiedono l’assunzione. Gli affiliati europei dei big Usa hanno seguito a ruota creando la Freelancers Association Europe per difendere i loro diritti.
I fondi di venture capital che hanno investito nel 2014 nel settore 1,6 miliardi (15 volte i soldi stanziati nel 2009) osservano preoccupati: «Molti padroni virtuali hanno capito che è necessario dare un minimo di garanzie – racconta De Stefano -. Handy ha iniziato a inquadrare con contratti più solidi i collaboratori più fedeli». Vetpronto, la catena dei veterinari a comando, dà uno stipendio minimo a chi garantisce più di 15 appuntamenti al mese. Careflix (badanti online) stipula polizze sanitarie. Fiutata l’attualità del tema, Jeb Bush e Marco Rubio – candidati repubblicani alle presidenziali sono scesi in campo contro queste regolarizzazioni, glorificando le virtù di autoregolazione dei mercati e le meravigliose sorti progressive di un settore che secondo McKinsey potrebbe creare 72 milioni di posti in 20 anni. La partita è aperta. Ma i lavoratUber, dopo anni di anonimato digitale, hanno alzato la testa. E venderanno cara la pelle.