la Repubblica, 23 novembre 2015
Processo alla libertà di stampa. La lettera di Fittipaldi, mandato alla sbarra e processato davanti ai giudici pontifici per aver scritto “Avarizia”
Caro direttore, mentre scrivevo Avarizia, il libro-inchiesta in cui racconto gli scandali economici e i segreti finanziari del Vaticano, mai avrei immaginato che dopo la sua pubblicazione sarei finito sotto inchiesta, mandato alla sbarra e processato davanti ai giudici pontifici.Processato perché accusato di un reato che prevede una pena che va dai 4 agli 8 anni di carcere. Secondo la dottrina cattolica l’avarizia è uno dei sette vizi capitali che allontanano l’uomo da Dio. Ero certo che aver intitolato così il volume non avrebbe fatto saltar dalla gioia le gerarchie della curia romana, le cui malefatte e il cui ambiguo rapporto con il denaro sono al centro della mia inchiesta giornalistica. Sapevo perfettamente che svelare che l’appartamento del cardinal Bertone è stato ristrutturato con i soldi della Fondazione del Bambin Gesù – ente destinato alla cura dei bambini malati – avrebbe innervosito coloro che conoscevano da anni la vicenda, e la tenevano nascosta. E prevedevo che descrivere i fondi milionari riempiti con beneficenza dei fedeli e usati per le necessità dei cardinali avrebbe messo in grave imbarazzo chi, tra prelati e monsignori, preferisce alla trasparenza invocata da Bergoglio l’antica consuetudine di lavare i panni sporchi al riparo delle mura leonine. Però speravo che il libro, invece di essere messo all’indice come ai tempi del Sant’Uffizio, provocasse anche una reazione costruttiva da parte del mondo ecclesiastico, un dibattito sulle difficoltà che papa Francesco sta incontrando nel cammino da lui intrapreso per «una Chiesa povera e per i poveri». È invece accaduto il contrario: a parte eccezioni di rilievo come quella di Nunzio Galantino («esiste una necessità di purificazione della Chiesa anche attraverso scandali di questo tipo» ha ragionato il segretario generale della Cei) gran parte delle porpore si sono chiuse a riccio, e alla fine s’è addirittura preferito incriminare non i mercanti del tempio, ma chi li ha smascherati. Un paradosso necessario anche a distogliere l’attenzione della collettività dallo scalpore (e la vergogna) dei fatti narrati.«La verità vi renderà liberi», dice Gesù nel Vangelo secondo Giovanni. Nel mio caso condurre il lavoro d’inchiesta, verificare con pazienza notizie da decine di fonti diverse e incrociare dati per mesi in modo da pubblicare storie vere mi ha portato a dovermi difendere da accuse gravi, e – secondo le norme della giurisprudenza italiana – illiberali.Perché io non sono incolpato per aver diffamato qualcuno, né per aver scritto falsità: finora nemmeno un rigo di Avarizia è stato smentito. Sono stato rinviato a giudizio perché un nuovo articolo del codice penale vaticano, approvato da papa Francesco nel luglio del 2013, prevede pene severe per chiunque «riveli notizie o documenti riservati».La giurisprudenza vaticana considera un delitto l’essenza stessa del nostro mestiere, ossia il dovere di pubblicare i fatti che il potere, qualunque forma esso prenda, vuole tenere occultati alla pubblica opinione. Non solo. Mi si accusa di aver messo a rischio «interessi vitali della Santa Sede»: ma davvero le notizie sul patrimonio immobiliare vaticano (pari a 4 miliardi di euro in palazzi e appartamenti a Roma, Parigi, Londra e la Svizzera) o sui costi necessari a parenti e ordini religiosi per canonizzare un loro beniamino (fare un santo può costare anche 3-400 mila euro) mettono a repentaglio la sicurezza nazionale della Santa Sede? Ho i miei dubbi.I giornalisti lavorano per il primario interesse dei lettori, e non è un caso che la libertà di stampa e il diritto di essere informati sia tutelato in ogni paese che si vuole democratico. In Vaticano ad oggi non esiste alcuna legge che possa essere paragonata all’articolo 21 della nostra Costituzione, né commi a difesa del diritto di cronaca, o codici deontologici che permettano al giornalista di opporre il segreto professionale a tutela delle proprie fonti. Domani inizia il dibattimento e sarò in aula. Ma questo che inizia non è un processo contro di me. È un processo alla libera stampa.